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 2020  novembre 08 Domenica calendario

Biografia di Lev Tolstoj, il grande contestatore

Quattro zar: per tutti e quattro è un personaggio scomodo. Nobile, ricco, bello, scapestrato, irruento, intransigente, polemico, aggressivo: comunque sempre contro i poteri arroganti, ottusi, dispotici. Sono passati 110 anni dalla sua morte (20 novembre 1910), eppure oggi campeggia ancora, imponente, nella storia, nella cultura, nella letteratura di tutto il mondo. Parliamo di lui, leggiamo i suoi romanzi, discutiamo delle sue idee, ammiriamo la sua energia, il suo coraggio, la sua statura di uomo libero in un Paese di autocrati reazionari, la sua incessante ricerca di un modo giusto di vivere in un mondo, il suo in fondo non molto diverso dal nostro, devastato da sopraffazione, superficialità, corruzione. Esce a testa alta da un secolo cruciale per la storia del suo Paese, un secolo che va a capofitto verso un’irrimediabile rivoluzione. Affonda le radici nell’humus russo, nella sua terra tormentata, per estrarne una linfa che non ha smesso di nutrirci. I suoi personaggi hanno la stessa immediatezza, la stessa forza di un secolo fa, la sua corrucciata insoddisfazione per l’umanità che lo circonda ci è familiare, la sua ansia di capire il senso della vita è ancora oggi contagiosa e le sue pagine sulla morte, del principe Andrej come di Ivan Il’ic, sono un monito per tutti: prepariamoci alla morte, abituiamoci alla morte, è il redde rationem di come abbiamo vissuto.
Tolstoj, per ripetere una formula abusata, è davvero nostro contemporaneo.


Adolescente inquieto
Lev Nikolaevic Tolstoj nasce il 9 settembre 1828 sotto Nicola I, lo zar poliziotto che con la sua Terza Sezione mette sotto torchio per trent’anni il mondo culturale russo: pugno di ferro, poliziotti ovunque, censure, arresti, esili, aria irrespirabile. Lev ha un’infanzia infelice, irrequieta: a 8 anni è orfano di entrambi i genitori, viene sballottato insieme ai fratelli tra zie e lontani parenti.
L’adolescenza è ancora più irrequieta: studi irregolari, frequentazioni poco raccomandabili, gioco (naturalmente perde, ma gli basta vendere qualcuna delle sue tenute per rifarsi), donne. Comincia l’università ma non la finisce: meglio seguire il fratello, ufficiale nell’esercito zarista. C’è l’avventura, il rischio. Sono anni turbolenti per la Russia, prima scontri nel Caucaso, subito dopo la guerra di Crimea (1853-1855), che rivela tutta la fragilità di un Paese ripiegato su sé stesso. Lev non ha un minuto d’esitazione, si fa mandare in prima linea, il fronte è certo più eccitante delle aule universitarie. Combatte, vede con i propri occhi lo sfacelo delle truppe russe, la disorganizzazione degli alti comandi, la vigliaccheria degli ufficiali, vive la sconfitta, la vergognosa ritirata. In pochi mesi scrive i tre Racconti di Sebastopoli (1855-1856): una denuncia furiosa, spietata dell’incompetenza, dell’impreparazione, della codardia di chi ha guidato le truppe. I veri eroi di questa guerra iniqua? Sono i soldati semplici, i contadini strappati alla terra e buttati sui bastioni come carne da macello: si battono e muoiono con coraggio, semplicità, abnegazione. Un tema che riprenderà nel suo romanzo più famoso, Guerra e pace (1863-1869).
I racconti fanno scandalo: come osa questo giovane rampollo dell’aristocrazia, scrittore alle prime armi, deridere gli ufficiali, sfidare i generali, mettere sotto accusa tutto lo stato maggiore?


Giudice di pace
Ovviamente dà le dimissioni e si ritira nella tenuta di Jasnaja Poljana. Non gli interessa il successo, il gran parlare che si fa di lui. Alla scrittura non dà ancora una priorità assoluta nel suo programma di vita. Muore Nicola I (1855), gli succede il figlio Alessandro II, lo zar delle riforme, attese da anni. Sì, attese da anni ma fatte in modo dissennato. L’abolizione della servitù della gleba (1861) sconquassa la società, mette in crisi l’economia, impoverisce i contadini, li sovraccarica di tasse, protegge i nobili che hanno dalla loro le banche, pronte a concedere facili crediti, ad accettare ipoteche, a far credere che l’incapacità gestionale di una classe addormentata per secoli sia facilmente superabile. Il giardino dei ciliegi di Anton Cechov (1904) dimostrerà, quarant’anni dopo, che le cose non stanno proprio così.
Lev si schiera subito dalla parte dei contadini: è vero che la riforma dà loro il diritto a un fazzoletto di terra che permetta la sopravvivenza, ma i proprietari terrieri nella loro ottusa grettezza si affrettano a concedere il meno che possono, i terreni più improduttivi, aridi, infecondi. Lev si fa eleggere giudice di pace. Parte, lancia in resta, contro la propria classe: nelle controversie tra padroni e contadini dà sempre ragione ai contadini. I nobili che si aspettano un appoggio lo considerano un nemico, ne chiedono le dimissioni, le autorità preposte all’ordine pubblico lo guardano con ostilità.
Non solo. Si mette in testa di cambiare il sistema scolastico con cui vengono cresciuti i bambini: comincia con le scuole rurali, frequentate dai figli dei suoi contadini. Inutile riempirli di nozioni noiose, l’apprendimento meccanico non serve a nulla, bisogna interessarli a quello che viene insegnato, bisogna coinvolgerli nella lezione, farli collaborare con il maestro alla scoperta del mondo in cui stanno per entrare. Solo allievi attivi, partecipi, possono assimilare l’insegnamento, altrimenti rimarrà per sempre un barboso bagaglio passivo.
Le idee pedagogiche di Lev (ancora oggi lette con interesse) scatenano la reazione violenta dei docenti tradizionali. Vincono loro: veto assoluto alla diffusione dei nuovi principi, alla proliferazione delle scuole rurali come le vuole il conte Tolstoj. Scriverà, per vendicarsi del boicottaggio delle sfere ministeriali, magnifici racconti per l’infanzia (Abbecedario, 1872; Quattro libri di lettura, 1875) che rimarranno per decenni i più amati dai bambini (non solo) russi.


Lo zar e il generale
Guerra e pace occupa poco meno di dieci anni di lavoro. Se ne è parlato ampiamente in queste pagine in occasione della magistrale nuova traduzione Einaudi. Nel ripercorrere le campagne napoleoniche, fino a quella (1812) che vede la Russia trionfare sull’imperatore francese, Lev esalta Michail Kutuzov, il generale che guida le armate russe con intuito e autentica saggezza, screditando l’esitante, pavido zar Alessandro I (e deridendo il grasso, presuntuoso, impetuoso Napoleone). L’abbandono al nemico di Mosca, la città sacra dalle cento cupole, deciso da Kutuzov dopo l’incerto esito della battaglia di Borodino, viene condannato dalla corte come decisione imperdonabile, viene considerato un sacrilegio: ma è la decisione che porta alla vittoria. Dunque ha ragione il vituperato Kutuzov, l’uomo che sa che cosa vuole il suo esercito, che capisce la volontà profonda del popolo, che sta dalla parte di chi combatte e non di chi comanda dal lontano Palazzo d’Inverno. Lev gli ridà tutta la centralità che gli venne negata ai suoi tempi. La storia, come vuole scriverla Lev, è la storia di chi vive le vicende, non di chi le decide nei ministeri o ne parla nei libri: è per questo che le battaglie, nel romanzo, sono così appassionanti, perché sono viste nella loro realtà, perché non c’è mai un vincitore e un vinto, ci sono solo soldati che si battono e muoiono, spesso nella confusione di ordini non chiari, in posizioni che si rivelano errate, con azioni che non ottengono lo scopo per cui sono iniziate.


Muro contro l’adulterio
Altro scandalo: Anna Karenina (1875-1877). L’obiettivo questa volta è l’ipocrisia dell’alta società pietroburghese che ritiene inscindibile il vincolo matrimoniale ma è pronta a tollerare ogni genere di trasgressioni purché siano salve le apparenze. Amanti? Tutte o tutti quelli che vuoi ma la famiglia non si tocca. Così si comporta Stiva, fratello di Anna, così si comporta la principessa Betsy: favorisce la relazione di Anna con Vronskij, purché resti un frivolo passatempo, ma è la prima a voltarle le spalle quando si rende conto che i giochi sociali non vengono rispettati. Allora ecco la spudorata domanda che pone il romanzo e che sconvolge i lettori dell’Ottocento: perché una donna giovane, bella, vitale, piena di energie deve soffocare in un matrimonio senza amore, fatto di noiose, aride anche se affettuose consuetudini? Perché non ha diritto di vivere una storia d’amore con un altro uomo, ritrovare con lui la passione fisica, la voglia di condivisione, il desiderio di stare insieme con gioia?
Anna sfida il perbenismo che la circonda, lascia il marito e parte con Vronskij: la società la rifiuta, la cancella, fa muro contro una decisione che infrange la rassicurante, volgare menzogna di tutte le coppie per bene di cui è pieno il mondo della capitale (e non solo della capitale, e non solo a metà Ottocento). «Scagli la prima pietra», dice il Cristo: dunque la società non ha il diritto di giudicare, Lev rivendica la libertà di scelta della donna. Sì, Anna si sente morta con Karenin, si sente viva con Vronskij. Sceglie la vita. Ha il coraggio di sfidare la società farisea, bigotta. E alla fine perde, ma non perché cede alla violenza di indegni preconcetti: perde perché la sua passione per Vronskij resta passione e non si trasforma in sentimento più completo, si riduce a volontà di possesso, diventa assurda gelosia, intolleranza per ogni passo di lui che la allontana da lei.
L’ultimo monologo prima del suicidio, in cui con spietata lucidità analizza le ragioni del suo fallimento, è un passo da antologia: andrebbe letto da tutti coloro che nella vita affettiva credono di avere certezze.


Sotto controllo
Muore Alessandro II, ucciso nel 1881 da una bomba di terroristi. Gli succede il figlio Alessandro III, che ovviamente, dopo la violenta morte del padre, apre una nuova stagione di repressioni, censure, oscurantismo. Lev prende subito le distanze: chiede al nuovo zar clemenza per gli attentatori. Non viene ascoltato: i colpevoli sono giustiziati. Inizia così una lunga battaglia per l’abolizione della pena di morte, primo passo della sua teoria della non resistenza al male con la violenza. Si rende conto della miseria di gran parte della popolazione non solo rurale ma anche urbana: nel suo libello Che fare? (1886) sfida il governo, gli mette sotto gli occhi la disastrosa situazione sociale. Comincia a predicare l’obiezione di coscienza, incita al rifiuto della leva, contesta la politica religiosa che perseguita le sette, ostili alla religione ufficiale, sovvenziona il trasferimento in Canada di una di queste, i duchobory, per sottrarla alle persecuzioni (1898). Insomma, diventa un personaggio davvero scomodo ma è troppo famoso per essere semplicemente messo a tacere. Così la polizia lo sorveglia, arresta qualche suo collaboratore, proibisce le sue opere polemiche.
Durante la terribile carestia del 1891, convinto dell’inefficienza dei provvedimenti governativi, decide di organizzare una raccolta di fondi, portandoli alle popolazioni allo stremo: uno schiaffo alla burocrazia zarista, nota per la sua inefficienza e il suo torpore (ma tutte le burocrazie, nelle emergenze, sono una palla al piede).


Una tomba senza croce
L’ultima strenua battaglia è contro la Chiesa ortodossa. La accusa di corruzione, di connivenza con il governo zarista, di avere perduto ogni contatto con la radice cristiana della fede. Si lancia nello studio delle Scritture, scrive esegesi del Vangelo, domanda e soprattutto si domanda come riallacciarsi all’insegnamento del Cristo, snaturato da secoli di indegni compromessi con i potenti della Terra. Un itinerario che racconta in un piccolo libro prezioso, Confessione (1882, subito sequestrato): il suo tormentoso cammino dalla perdita della fede verso una nuova scoperta della vera parola evangelica, potente nella sua semplicità, grandiosa nella sua libertà dai troppi dogmi accumulati nei secoli. La fede è armonia con il creato: lo scopre Levin alla fine di Anna Karenina. La fede è rispetto delle leggi della natura, è moralità profonda: ognuno deve ritrovarla dentro di sé. Così fanno molti suoi personaggi, da Pierre Bezuchov in Guerra e pace a Levin in Anna Karenina a Nechljudov in Resurrezione (1889-1899). Ma è un cammino faticoso, bisogna scrollarsi di dosso secoli di facili formule, di accettazione passiva, di genuflessioni imposte. Torniamo alle parole evangeliche, alla grande rivoluzione del Cristo.
Inutile dire: la Chiesa ortodossa non tollera la sfida. Prima lo censura, poi, nel 1901, lo scomunica. È una decisione impopolare, che sconvolge il mondo dei credenti. Così nel 1910, quando, nella stazioncina di Astapovo, Lev muore di polmonite, la Chiesa ortodossa cerca di recuperare il rapporto con lo scrittore, manda suoi emissari: vogliono dargli l’estrema unzione, rimediando allo condanna di dieci anni prima. Vengono respinti. Lev muore con la sua fede nel Dio misericordioso che non conosce scomuniche, non conosce dogmi. E la sua tomba a Jasnaja Poljana è in terra sconsacrata, senza una croce: un tumulo coperto di erba. Lev ha voluto tornare alla terra, più giusta di qualsiasi confessione.