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 2020  novembre 08 Domenica calendario

Il dilemma del prigioniero

Le discipline scientifiche hanno nutrito il dibattito culturale nel nostro Paese grazie a personaggi di eccezionale valore, non sempre conosciuti quanto meriterebbero. Giuseppe Trautteur, fisico, matematico e teorico dell’informazione, per molti anni professore di Teoria della computabilità alla Federico II a Napoli, ne è un esempio. Qui basti dire che Trautteur è stato l’artefice della mitica collana rossa della «Scientifica» di Adelphi, che ha svolto per i libri di scienza, con la sua mistura di arditezza e snobberia intellettuale, lo stesso fondamentale ruolo di novità e di stimolo culturale che la casa editrice di Roberto Calasso ha giocato per la letteratura.
Trautteur ha scritto poco, libero prigioniero, suppongo, della medesima ritrosia all’espressione pubblica dei pensieri che caratterizzò Roberto Bazlen, che fu tra gli storici collaboratori di Adelphi, e che Trautteur riconosce come maestro e un poco come padre. Sarebbe bello che il professor Trautteur raccogliesse in un volume le schede lapidarie che ha redatto negli anni, selezionando i volumi per la sua collana. Nell’attesa, rallegriamoci della pubblicazione di questo delizioso e denso libretto, dedicato al tema della libertà e del libero arbitrio.
Sull’argomento esiste, nota Trautteur, una letteratura di portata amazzonica; ma il libro è pregevolissimo nella sintesi e nella precisione, e consente di navigare tra i diversi concetti con agio e diletto.
Nella prima parte Trautteur ci introduce al tema chiarendo nozioni essenziali come quella di prevedibilità, che non è connessa necessariamente al determinismo o all’indeterminismo: vi sono infatti sistemi deterministici non prevedibili (come la roulette o la meteorologia) e sistemi indeterministici che ammettono una prevedibilità statistica (ad esempio i sistemi quantistici nella loro totalità, sebbene non al livello dei singoli eventi). Il fatto che determinismo e prevedibilità non vadano a braccetto consente a Trautteur di demolire argomenti, come quello del cibernetico Donald MacKay secondo il quale, assumendo la conoscenza perfetta dello stato del sistema nervoso, la comunicazione a un soggetto della sua scelta prima che l’abbia compiuta cambierebbe il suo sistema nervoso e quindi renderebbe non valida la previsione antecedente. Consente di mostrare altresì come le posizioni filosofiche ispirate al compatibilismo (secondo il quale un comportamento sarebbe libero se il soggetto può fornire ragioni per la sua azione) non siano in contrasto con il determinismo: le ragioni dell’azione, infatti, possono essere interamente determinate dall’attività fisico-chimica del sistema nervoso. Di più, ciò che il compatibilismo richiede è che la volontà consapevole svolga un ruolo di qualche tipo nel causare l’azione, restando indifferente al fatto che tale volontà sia eventualmente determinata da fattori inconsapevoli.
Da questo punto di vista appare molto più distruttiva per il libero arbitrio la posizione di chi, come lo psicologo Daniel Wegner, argomenta che le ragioni che adduciamo per le nostre scelte sono mere confabulazioni, congegnate a posteriori, e perciò causalmente irrilevanti per la produzione delle nostre azioni.
Nel libro Trautteur ci pone davanti al problema della transizione, quando costituirà il sentire comune per gli esseri umani l’idea che i processi decisionali, così come tutti i processi mentali, siano completamente determinati dall’attività del sistema nervoso, con la conseguente dissonanza, o polifasia, cognitiva tra l’esperienza incorreggibile di essere liberi e il riconoscimento intellettuale che non lo siamo.
Trautteur ammette in vari punti del libro il nesso, probabilmente inestricabile, con il tema della coscienza, dal quale però sembra ritrarsi con prudenza. Tuttavia proprio un aspetto della coscienza che è al centro delle preoccupazioni degli studiosi di ispirazione biologico-evoluzionista potrebbe rivelarsi di qualche interesse. Assumendo che il libero arbitrio sia un’illusione, una finzione o addirittura una farsa, vien da chiedersi a quale scopo venga messo in scena. L’argomento del compatibilismo menzionato sopra ci pone di fronte alla questione in maniera diretta: un’azione è libera quando un soggetto può fornire ragioni per quel che ha fatto. Bene, ma di quale vantaggio godrebbe un individuo che possa offrire ragioni per le sue azioni? Il vantaggio cui alludo qui è quello che hanno in mente i biologi, che si declina in fitness, ovvero sopravvivenza e riproduzione.
Qualche anno fa, probabilmente frustrato dalla difficoltà di fornire una funzione biologica plausibile per la coscienza, lo psicologo comparato Nicholas Humphrey se ne è uscito con la bella idea che forse la coscienza potrebbe semplicemente servire a farci sentire importanti, ad accrescere, per così dire, la nostra auto-valorizzazione metafisica. L’opacità, per gli altri, delle esperienze coscienti giocherebbe in questo un ruolo chiave: le esperienze coscienti sarebbero opache e impenetrabili proprio perché foggiate dalla selezione naturale per essere tali. La privatezza rende le esperienze, mie e degli altri, incredibilmente speciali e preziose, e ciò potrebbe aver incoraggiato nuovi livelli di mutuo rispetto nelle relazioni umane. Mi domando se questa linea di ragionamento non possa aiutarci anche con il libero arbitrio. Possedere delle ragioni per le nostre azioni potrebbe essere importante oltre che per il pubblico astante – il passante cui chiedi scusa perché non l’hai urtato apposta o il giudice cui motivi la gelosia che ti ha spinto all’uxoricidio – per l’individuo stesso.
La condizione successiva alla transizione su cui si interroga Trautteur è in un certo senso simile alla condizione precedente il crollo della mente bicamerale descritto da Julian Jaynes nel suo immaginifico saggio (Il crollo della mente bicamerale e l’origine della coscienza, Adelphi, Milano, 1984). L’uomo dell’Iliade, secondo Jaynes, non possedeva ragioni per le proprie azioni, egli non agiva poiché era invece «agito» dalle voci degli dèi che sussurravano al suo orecchio (sinistro, apparentemente, se, come immagina Jaynes, le voci degli dei erano rappresentate dall’attività dell’emisfero cerebrale destro). Quando gli dèi se ne vanno, e le voci allucinatorie tacciono, nasce secondo Jaynes la coscienza e, assieme a questa, gli esseri umani acquisiscono il libero arbitrio, perché adesso hanno ragioni per le loro azioni, ragioni che in precedenza erano impenetrabilmente collocate nelle menti di altri.
Ovviamente non è corretto asserire che la transizione rappresenti il venire meno della possibilità di fornire ragioni per l’azione, semplicemente le ragioni sono ascritte al funzionamento della macchina cerebrale («non sono io dottore, è il mio cervello che mi fa agire così…»). L’origine del dissidio, della dissonanza cognitiva, come nota Trautteur, è dunque connaturata all’inclinazione dualistica del nostro pensiero, che spontaneamente distingue, fin dalla più tenera età, le entità animate e quelle non animate, i corpi e gli spiriti; il vantaggio biologico di una tale propensione essendo rappresentato dalla possibilità di riconoscere prontamente nell’ambiente naturale la presenza e l’operare di agenti intenzionali.
Insomma, sperimentare psicologicamente che siamo gli autori delle nostre azioni, i protagonisti delle nostre decisioni, potrebbe aver reso più preziose le nostre vite, degne di essere vissute e importanti a noi stessi. Se di un’illusione si tratta, forse dovremmo tenercela ben stretta, rassegnandoci a farla convivere pacificamente con il determinismo neuronale. Perché, si sa, per chi ha mangiato all’albero della conoscenza non c’è più Paradiso.