Il Sole 24 Ore, 8 novembre 2020
Andrea Zanzotto ceramista
L’anno prossimo ricorrerà il centenario della nascita di Andrea Zanzotto. Ricorrerà anche il decennale della morte. Un omaggio anticipato avverrà già il prossimo 15 novembre a Milano per la terza edizione di “Poetry and the City”, con il titolo Zanzotto 99.
Oso pensare che al celebrato il numero 99 non sarebbe dispiaciuto. La numerologia gli stava a cuore, come testimoniano vari luoghi della sua opera. Il titolo di uno dei suoi libri più importanti, IX ecloghe, contiene – guarda un po’ – il 9, e fa pure qualcosa di analogo: sottrae un’unità. Le ecloghe, infatti, se stiamo all’esempio canonico di Virgilio, uno dei poeti che più hanno significato per Zanzotto, sono dieci. La numerologia, sì, gli stava a cuore, ma lo interessavano anche e ancor più il calcolo che non torna, l’approssimazione, il mancare. «C’è sempre qualche silenzio», mi disse con la sua ironia l’ultima volta che ci parlammo al telefono, pochi mesi prima che morisse, sentendomi lamentare dell’insufficiente qualità della ricezione. E, per rimanere con i calendari, voglio anche ricordare che, in occasione del nostro primo incontro, constatò, dopo aver riletto la data della dedica che aveva appena scritto sulla mia copia dell’Oscar Mondadori: «È un anno palindromico». Era il 1991. Anche 99 è palindromico. E, se scomponiamo la lettura secondo le decine, lo è anche questo 2020.
Celebrando Zanzotto, si rende onore a una delle opere più originali e più profonde del Novecento europeo. Lui sorrideva quando gli si dava del classico. In verità, non faceva nulla per non impersonarlo. Indagava le strutture del linguaggio, il rapporto tra parola e mondo, la sostanza della storia, le ombre della vita psichica, la dea natura, convinto, pur tra delusioni e smarrimenti, che la poesia fosse una grande scienza dell’uomo e che a lui, nonostante le crescenti mortificazioni cui il consumismo e la massificazione dei rapporti sottoponevano la poesia, spettasse il compito di dar voce a un’ultima protesta. Sentiva impossibile la salvezza del mondo, ma non si arrendeva alla disperazione, perché lasciava pur sempre spazio alla possibilità di qualche residua bellezza.
Era un maestro, e manteneva il temperamento dell’allievo. Anche questo è da classico. La poesia, grazie a lui, ha conosciuto occasioni stupefacenti. Sperimentava per indole, non per partito preso, distinguendosi radicalmente dagli avanguardisti coevi, che non a caso, non senza invidia, non l’hanno mai sentito uno dei loro. Per lui era insopprimibile la necessità di trovare la parola in contesti dove non si fosse ancora consumata, e risorgesse potente, imprevista, strana. Procedeva per tentativi, per guadagni parziali.
E così, parendo bloccato in un perenne iniziare, costruiva senza posa: il componimento lungo come il frammento, il sonetto monco come l’ipersonetto (una sequenza di sedici sonetti), l’inno di matrice pindarica o hölderliniana come il finto haiku. A partire da un certo momento, sono venuti anche i segni non verbali: diagrammi, fumetti, schizzi. La mano del poeta raspava sulla nudità del silenzio e tracciava spazi e movimenti per la volontà di significare e in ciò si poneva essa stessa come significato agente e fisico, e la scrittura, sebbene a noi dovesse presentarsi immobile, pur nella sua dinamica disposizione, non era fatto finito, ma avvenimento, scena dell’esserci, fenomeno pop-up. Il visuale ampliava, così, il dominio del poetico attraverso un ampliamento dei segni, come nuova, benché provvisoria ricchezza, dando al tempo stesso al poeta il modo di ricollegarsi con l’arte del padre, che era stato pittore e in tempi lontani lo aveva indirizzato al disegno.
Di questa performatività sono un bellissimo documento certe ceramiche degli anni ottanta, che Zanzotto creò per Mario e Armando Sutor, padroni della Cottoveneto. «Si tratto?, per me – ha raccontato in una pagina inedita, raccolta da Francesco Carbognin nel 2008 – di un’esperienza nuova e affascinante, che mi permise di esprimere quella che ormai avvertivo imporsi all’attenzione cosciente in una certa forma di “attitudine” al gesto e al segno grafico. E? in me ben vivo il ricordo di quell’atmosfera che permeava i pomeriggi trascorsi nel grande laboratorio di Carbonera: un’atmosfera quasi di sogno fatta di colori, di materiali vari e di strumenti di lavoro, uniti dall’ipnotica “colla” dei silenzi creativi e delle parole che si scambiavano tra noi, artisti ritornati bambini in forza di chissa? quale misterioso sortilegio. Sulla ceramica non ancora cotta incidevo, allora, gruppi di versi attinti variamente e fantasiosamente dai miei libri; e con una sempre rinnovata sorpresa, affiorati di volta in volta alla memoria, li ritrovavo improvvisamente li?, intagliati, graffiati, sbalzati su un materiale corposo e plastico, ben dissimile da quello consueto costituito dalla carta. Potevo, cosi?, sorprendere le mie stesse parole sostanziarsi di una particolare, inedita “autorita?” data dallo spessore fisico, materico, dell’incisione: come se ogni piatto, ogni mattonella, costituisse lo spazio scenico di una piccola rappresentazione, da percepirsi con gli occhi e con il tatto e irriducibile alla mera lettura. E la scena di quei singoli “atti”, di quei brevi passi di danza, restava quella di un paesaggio materiato di fiori, di erbe, di alberi stilizzati, di figure che si accordavano “ritmicamente” e spazialmente alle parole».
Su queste ceramiche sono finiti anche due esempi di haiku che non compaiono in nessuna delle raccolte pubblicate. Eccoli:
Se solo accettazione, solo il lieve
bacio della frasca
quando il bosco attraversi
se solo il perdersi in non ben scritti
versi
se solo un itinerario di condiscen-
denza
***
Servire in pace quasi sonnolenta.
Non è un’ara la pietra, dèi non
passarono
che non fossero pronti a servire
pur essi
Cogli il consiglio del fiore
che meno presunse, là sull’orlo, sul
ciglio
Ringraziamo la famiglia del poeta per averci mostrato questi lavori e per averci concesso di renderli noti al pubblico del «Domenicale», tanto più in questa fase della storia planetaria in cui alla natura non sappiamo rivolgere che sguardi interdetti, assai poco condiscendenti.