Il Sole 24 Ore, 8 novembre 2020
QQAN50 L’enciclopedia delle Stelle Michelin
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Nel marzo del 1900, il quarantasettenne André Michelin, alla guida della sua già prospera azienda specializzata nella gomma, ebbe l’idea di pubblicare un piccolo libretto rosso “offert gracieusement aux chauffeurs”. Si trattava della prima edizione della guida Michelin della Francia, nell’anno in cui Parigi celebrava l’Esposizione Universale. Tra le 400 pagine già comparivano quelle “stelle” (che però erano riferite al costo degli alberghi e non ancora alla qualità dei ristoranti) che avrebbero poi consacrato il mito della “rossa”, diventata in 120 anni la guida più influente e temuta al mondo.
Una saga dell’haute cuisine che oggi viene raccontata nel ponderoso volume di Maurice Von Greenfields, alias Maurizio Campiverdi, e pubblicato da Maretti Editore (720 pagine, 30 euro). Si chiama giustappunto Tre Stelle Michelin ed è un’enciclopedia dell’alta ristorazione mondiale con la storia, tra ascese e declini, dei 286 ristoranti tristellati dal 1933 (anno in cui compaiono per la prima volta 23 insegne con tre stelle, tra cui la Tour d’Argent di Parigi) a questo 2020 che sta così duramente colpendo il settore. Tutti accompagnati da schede descrittive frutto dell’esperienza diretta dell’autore (viceversa, nei pochissimi casi, si noti il simbolo N.V. che fa apprezzare la sua onestà intellettuale). A cominciare da quello di Paul Bocuse – probabilmente il più famoso tra gli chef, scomparso a inizio 2018 – che per 55 anni ha detenuto le tre stelle e che nell’ultima edizione, incredibilmente, ne ha persa una.
Alcune tappe di una lunga storia
La brillante intuizione di marketing ante litteram di André Michelin, che aveva tutto l’interesse a vendere pneumatici, era nata proprio per favorire la rapida trasformazione dei francesi in automobilisti. Nel 1920 la guida viene messa per la prima volta in vendita al prezzo di 7 franchi. E nel 1923 fanno la loro comparsa i ristoranti che allora, al di fuori dei grandi alberghi, si trovavano quasi esclusivamente a Parigi e Lione. Le stelle, da lì in avanti, indicheranno solamente la qualità e il comfort dei ristoranti: da una a tre, per le migliori tavole, quelle che secondo la descrizione in guida di Bibendum – l’omone fatto di pneumatici e simbolo dell’azienda – “valgono il viaggio”. Negli anni la Michelin si distinguerà anche per la qualità nella cartografia, tanto che la precisione delle mappe delle città francesi fu utile agli alti comandi militari alleati che stavano preparando lo sbarco in Normandia. Nel 1956 finalmente anche una guida rossa dedicata all’Italia o, più precisamente, “dalle Alpi a Siena”. Seguiranno le edizioni della Germania, Spagna e Portogallo, Gran Bretagna e Irlanda, Belgio, Olanda e Lussemburgo. In quest’ultima guida, nel 1972, un ristorante straniero, Villa Lorraine a Bois de la Cambre (10 km da Bruxelles) si merita le prime tre stelle.
Gli chef italiani
Il primo ristorante del Belpaese a ottenere il massimo riconoscimento, nel 1986, fu quello in via Bonvesin de la Riva a Milano, che recava il nome del suo chef e proprietario: Gualtiero Marchesi. Il Maestro della cucina italiana riuscì a portare con sé le tre stelle anche nella nuova sede dell’Albereta, a Erbusco, nel 1993. Sono 16 in totale i ristoranti italiani ad aver avuto lo stesso privilegio. C’è chi nel frattempo le ha perse, come Al Sorriso e Don Alfonso 1890. Chi ha purtroppo chiuso, come l’Antica Osteria del Ponte (oltre alle due sedi di Marchesi, naturalmente). E ci sono anche nomi celebri che si sono fermati a due, tra cui Vissani. Oggi sono 11 le tre stelle in carica: Dal Pescatore della famiglia Santini a Canneto sull’Oglio è il più longevo, dal 1996; ultimo in ordine di proclamazione è stato lo scorso anno Enrico Bartolini al Mudec. Il cuoco pistoiese ha riportato le tre stelle a Milano dopo 26 anni (e dopo Gualtiero Marchesi) ed è anche l’italiano più stellato di sempre con un totale di 8 macarons distribuiti su 5 locali della sua galassia. Gli altri al top della guida sono Enoteca Pinchiorri a Firenze, Le Calandre a Rubano, La Pergola a Roma, Da Vittorio a Brusaporto, Osteria Francescana a Modena, Piazza Duomo ad Alba, Reale a Castel di Sangro, St. Hubertus a San Cassiano e Uliassi a Senigallia.
Grandi città ma soprattutto piccoli centri: uno dei meriti della Michelin è (anche) quello di aver favorito un turismo internazionale che si muove – come in pellegrinaggio – sulle rotte delle stelle e di aver così cambiato la sorte (e l’economia) di molte località. Sarà ora di riportare le tre stelle anche al Sud Italia (magari in Campania o in Sicilia)? Sì, è ora. Staremo a vedere cosa succederà nell’edizione 2021, che sarà presentata il 25 novembre.
Nel resto del mondo
Oggi l’universo Michelin è sempre più internazionalizzato (e ha accettato la pubblicità) con numerose guide dedicate a singole città: New York, San Francisco e Chicago, Rio de Janeiro e San Paolo, Tokyo, Hong Kong e Pechino (uscita nel 2020 con un unico tristellato) e altre. È la Francia il Paese con più ristoranti al vertice, ben 28 (di cui 10 a Parigi) e sono addirittura 102 nella storia quelli d’Oltralpe ad aver ottenuto il massimo riconoscimento da una guida da sempre filofrancese nelle sue inclinazioni culinarie. Spagna e Germania sono allineate all’Italia, con 11 ristoranti, l’Inghilterra ne ha 5. Fuori dall’Europa spiccano il Giappone con 22 tre stelle (di cui 11 solo a Tokyo) e gli Stati Uniti con 15.
Si rischia di fare indigestione a sfogliare le pagine del libro di Campiverdi, tra aneddoti, statistiche e informazioni preziose. E anche legittime critiche – ai (pre)giudizi a volte poco comprensibili e a una certa impermeabilità alle novità – e doverosi chiarimenti – «si può essere grandi anche senza stelle». In appendice c’è spazio per 30 leggendari menu tristellati, da quello de Le Louis XV di Alain Ducasse a quello di El Bulli di Ferran Adrià, piccolissima parte della personale collezione di 75mila pezzi di un gastronomo come pochi altri.