la Repubblica, 8 novembre 2020
Quale sarà il programma del presidente Biden
Joe Biden ha già pronta una task force per rilanciare su basi nuove la lotta al coronavirus. Riporterà subito gli Stati Uniti nell’accordo di Parigi per il cambiamento climatico, e nell’Organizzazione mondiale della sanità. Lancerà un’offensiva della seduzione diplomatica verso l’Europa, da riconquistare in un’alleanza forte. I dazi contro gli europei potrebbero essere tolti presto. Verso la Cina, durezza per gli abusi sui diritti umani. Disponibilità a riallacciare un dialogo con l’Iran, ma con prudenza e tante condizioni nuove. Sono alcuni dei cambiamenti immediati che vedremo con il 46esimo presidente. “Immediati” significa dal 20 gennaio, Inauguration Day: la Costituzione americana impone una transizione lunga, talvolta incompatibile con le emergenze. Già questo pone un problema grosso: Donald Trump, che occuperà la Casa Bianca per i prossimi due mesi e mezzo.
Tra il novembre 2008 e il gennaio 2009 gli Stati Uniti erano nella spirale di un crac sistemico, con il sistema bancario al collasso, una pesante recessione, licenziamenti di massa. Allora però la transizione tra George Bush e Barack Obama fu cooperativa, la squadra uscente e quella entrante concordarono le grandi manovre di salvataggio. Oggi con 235.000 morti di coronavirus e 11 milioni di disoccupati il disastro è peggiore, ma la transizione rischia di essere sabotata da Trump. L’altro problema per Biden nel decidere l’agenda di governo, è il Senato. Se conserva una maggioranza repubblicana, dovrà concordare tutto con una destra ostile, che si sente sconfitta solo a metà. Perciò prima ancora di entrare alla Casa Bianca, il presidente eletto deve fare… un’altra campagna elettorale. Restano due seggi senatoriali da assegnare in Georgia, il 5 gennaio: i democratici hanno bisogno assoluto di vincerli tutti e due. Altrimenti Biden sarà un presidente “anatra zoppa” fin dal primo giorno.
Salvo che in politica estera, l’unico terreno sul quale il Commander- in-Chief decide quasi da solo e non ha quasi mai bisogno di passare dal Congresso. Di qui la priorità a gesti simbolici come gli accordi di Parigi (che non sono un vero trattato, quindi non richiedono ratifica parlamentare), il dialogo con l’Europa, le novità su Iran e Cina. Ancora: Biden potrà cancellare con un tratto di penna le normative anti-ambiente e pro-energie fossili, tutto ciò che Trump ha fatto per la deregulation del carbone, del petrolio, del gas. Erano decreti esecutivi del presidente, un nuovo presidente può disfarli. Ma siamo ben al di qua del sogno di un Green New Deal.
Il primo mega-dossier che attende il presidente è già sulla sua scrivania: è la seconda o terza ondata del covid. Biden intende varare una legge federale con l’obbligo di mascherina; darà aiuti agli Stati che sono in prima linea nell’affrontare le spese sanitarie di emergenza; aumenterà il coordinamento federale per i test e il tracciamento di massa; riporterà gli Stati Uniti dentro l’Organizzazione mondiale della Sanità per rafforzare la cooperazione con gli altri paesi. Tutto questo non basta. Dovrà rispondere con i fatti all a critica del suo predecessore secondo cui il “piano Biden” contro la pandemia è un elenco di cose già fatte dall’Amministrazione uscente. La capacità di effettuare test e di tracciare il contagio è già aumentata, Biden deve riuscire a fare meglio.
La seconda emergenza è l’economia. Biden ha promesso una nuova manovra di spesa pubblica (sarebbe già la quarta), dell’ordine di duemila miliardi di dollari, tutta da fare in deficit- spending, con aumento dell’indebitamento federale, perché solo così ha il massimo effetto anti-recessivo. Già Trump aveva raggiunto accordi bipartisan con i democratici alla Camera, col risultato di un deficit federale balzato al 16% del Pil. C’è un problema e ancora una volta si chiama Senato. I repubblicani hanno la spesa facile quando c’è uno dei loro alla Casa Bianca, riscoprono l’austerity appena arriva un presidente democratico. La manovra per avere i voti del Senato rischia di subire dei tagli soprattutto sul versante sociale (aiuti ai disoccupati).
La vera impronta riformista di Biden doveva essere affidata alla seconda manovra di spesa pubblica, da varare nel medio termine. Anche questa viene stimata a duemila miliardi di dollari. È qui che si collocano i progetti per le energie rinnovabili, gli investimenti in infrastrutture. Il segno ambientalista era forte: priorità ai trasporti collettivi, alle ferrovie, all’auto elettrica. Nel totale di duemila miliardi dovevano trovare posto anche un piano da 775 miliardi per migliorare le cure mediche all’infanzia e agli anziani; possibilmente “l’opzione statale” del servizio sanitario in concorrenza con le assicurazioni private. Ma tutto rischia di diventare un libro dei sogni, davanti all’ostruzionismo repubblicano al Senato. Tanto più che questa seconda maxi-manovra di spesa, Biden ha promesso di finanziarla con 1.400 miliardi di nuovo gettito, prelevandolo dai più ricchi. L’obiettivo è una contro-riforma fiscale rispetto a quella varata da Trump, per spostare il peso dell’imposizione sulle grandi imprese e sui ceti più ricchi. La tassa sugli utili societari dovrebbe salire dal 21 al 28%. In aumento anche le aliquote sui redditi personali sopra i 400.000 dollari, le tasse sul capital gain (39,6% sui redditi sopra il milione), i contributi sociali sui salari molto alti. Ora è tutto in forse, fino al verdetto cruciale del 5 gennaio in Georgia.