Il Messaggero, 7 novembre 2020
Il 18 brumaio 1799 e l’ascesa di Napoleone
Nell’età contemporanea la data di dopodomani rappresenta la caduta del muro di Berlino. Ma nel più ampio contesto della storia moderna essa costituisce un passaggio anche più importante: perché il 18 brumaio (cioè il 9 novembre) 1799 Napoleone, con un colpo di Stato, conquistò di fatto, se non ancora di diritto, il potere che lo avrebbe condotto al trono Imperiale. Considerando che l’impalcatura giuridico-amministrativa del nostro Paese, dal codice civile all’istituzione delle Prefetture, è stata costruita da lui, quella data è per noi anche più importante del crollo del comunismo. Per di più, quell’evento passato ci ammonisce sui rischi del futuro.
Ma come avvenne che un generale di appena trent’anni arrivò a governare il Paese più ricco, più colto e più popoloso d’Europa?
La Francia entrava nel decimo anno della sua turbolenza rivoluzionaria, dove si erano avvicendati personaggi e interpreti di varia estrazione ideologica e di comune violenza politica. Il 14 Luglio del 1789 era caduta la Bastiglia e la testa del suo sfortunato governatore era stata issata su una picca da una folla entusiasta; nel settembre del 92 Parigi aveva assistito a un massacro di innocenti quale non s’era visto dalla notte di San Bartolomeo. Pochi mesi dopo era stato decapitato il Re, seguito più tardi da Maria Antonietta. Con l’assassinio di Marat e l’autoisolamento di Danton il potere era passato a Robespierre, che si era liberato dello stesso Danton e di quanto restava dei girondini. La legge dei sospetti aveva soppresso tutte le garanzie costituzionali, e alla fine, la Rivoluzione aveva divorato i suoi figli, eliminando proprio quell’Incorruttibile che l’aveva coperta di sangue. Parigi fu quindi travolta da un terrore bianco fatto di vendette e di soprusi da parte di chi era sopravvissuto alla decimazione dei tre anni precedenti. Quando, il 5 Ottobre 1795, i realisti ammassarono 25 mila uomini per marciare sulla Convenzione, i deputati, o quel che ne restava, corsero ai ripari. Il presidente Barras si ricordò di un giovane generale, promosso sul campo, che oziava per le Tuileries in attesa di un impiego, e si rivolse a lui. Il ventiseienne Napoleone Bonaparte racimolò i cannoni disponibili, affrontò gli insorti davanti alla chiesa di Saint Roch, ne stese alcune centinaia e disperse il resto a colpi di mitraglia. Il venerabile edificio – che alcuni anni dopo avrebbe ispirato la conversione di Alessandro Manzoni – ne reca ancora le tracce sui muri.
LA CAMPAGNARiconoscente per questo soccorso, il nuovo potere esecutivo, costituito in Direttorio, il 2 marzo 1796 affidò a Napoleone l’armata d’Italia. Fu una campagna brillante e vittoriosa, che costò, tra l’altro l’indipendenza di Venezia. Ma a Parigi continuavano i disordini, alimentati dal galoppare dell’inflazione. Un rigurgito filoborbonico fu stroncato sul nascere, e il 4 Settembre 1797 un nuovo Direttorio riportò la Francia sotto una precaria tranquillità. Bonaparte assistette disgustato a questi eventi, e si tenne prudentemente in disparte, e il Direttorio lo spedì in Egitto, per tagliare le linee commerciali con l’Inghilterra.
La Francia che trovò al suo ritorno, nell’autunno del 99, era in preda all’anarchia. I suoi eserciti erano stati ovunque sconfitti, e quelli nemici premevano ai suoi confini. Suvorov aveva riconquistato la Lombardia e la Liguria decretando la fine del Repubblica Cisalpina. Parigi era afflitta dai rancori dei neogiacobini, dalla fame dei disoccupati, dall’avidità degli speculatori, dallo scoraggiamento dei commercianti, dalla chiusura delle imprese, dalla violenza dei briganti e dall’inerzia del governo. In maggio, il Direttorio aveva ripescato dal suo prudente isolamento l’abate Sieyès, sperando che trovasse la formula magica per riportare la Francia alla normalità. Il venerabile intellettuale aveva già in mente una nuova Costituzione, ma riteneva che potesse essere garantita solo da un’autorevole personalità militare. Napoleone era l’uomo giusto.
Il giovane generale accettò l’incarico, ma accelerò i tempi, e agì, per la prima volta nella sua vita, con precipitazione. Il 18 brumaio offese il Consiglio degli Anziani, imputando loro «la desolazione, la miseria e la sconfitta» in cui versava il Paese. Peggio ancora, fece circondare l’Assemblea dai suoi soldati, tra le proteste dei deputati contro l’aspirante dittatore. Fu un momento cruciale. Disorientate per l’evidente sopruso contro i rappresentati del popolo, le truppe esitarono, Napoleone perdette lucidità e fu prossimo a svenire. Fu salvato dal fratello Luciano che convinse i soldati a rientrare nei ranghi e a sostenere il loro comandante. Napoleone riprese vigore, fece sgombrare l’aula con le baionette, e quella sera dormì al Palazzo del Lussemburgo.
LA SVOLTAL’impresa del 18 brumaio non fu una controrivoluzione, né un vero colpo di Stato. L’Assemblea non fu sciolta ma opportunamente aggiornata, e mantenne la sua funzione. Napoleone fu abbastanza abile da mitigare la forza militare con un ossequio, almeno formale, ai principi di Liberté, Egalité, Fraternité, ormai troppo radicati nel Paese per essere rimossi. Comunque la Francia era stanca di terrori rossi e bianchi, di governi svogliati e corrotti, di periodiche carestie e di una galoppante inflazione. Sentiva il bisogno di un ordine stabile, di un rilancio economico e di una pace durevole. Napoleone le diede ordine e prosperità, anche se a prezzo di guerre continue e di vittorie gloriose ma precarie. Come spesso accade ai potenti, logorati dal potere e accecati dall’ambizione, dopo dodici anni di battaglie vinte e di armistizi temporanei si avventurò nella steppa russa, e l’epilogo di Waterloo fu l’inevitabile sanzione all’arroganza del condottiero. Nei suo memoriale di Sant’Elena egli riconobbe con modestia che i suoi meriti maggiori non risiedevano nelle distruzioni delle guerre ma nella sua creazione amministrativa, che come s’è detto, sopravvive ancora oggi da noi.
Visto retrospettivamente, il 18 brumaio ci insegna comunque alcune cose. Che il nemico più subdolo della democrazia non risiede nell’aggressività dei vicini, ma nell’oscillante torpore e nella rassegnata sfiducia di governi esitanti. Che la sicurezza, assieme alla salute e alla nutrizione, prevale su ogni astratta ideologia, perché un popolo vessato dalla criminalità, annichilito da una epidemia o consumato dalla fame è disposto a sacrificare molti valori che sino a quel momento sembravano sacri e intangibili. Perché quando le emergenze sulla salute, sulla sicurezza o sulla sopravvivenza allarmano i cittadini, il rischio di una involuzione illiberale è sempre in agguato.