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 2020  novembre 07 Sabato calendario

Intervista a Stuart Turton

Questo è Stuart Turton secondo lui (dal suo profilo su Goodreads). «Stuart vive a Londra con la sua straordinaria moglie e una figlia. Beve molto tè. Cos’altro? Quando ha finito l’università ha detto che partiva per tre mesi ed è rimasto via per cinque anni. Ogni volta che i suoi genitori gli chiedevano quando sarebbe tornato, rispondeva: la prossima settimana. E lo pensava davvero. Quindi non fidatevi di lui. Ha una laurea in inglese e filosofia, il che lo rende un eccellente oratore, ma pessimo nella scelta dei diplomi. Non essendosi specializzato per seguire nessuna carriera in particolare, le ha provate un po’ tutte. Ha rifornito scaffali in una libreria di Darwin, ha insegnato inglese a Shanghai, ha lavorato per una rivista di tecnologia a Londra, ha scritto articoli di viaggio a Dubai e ora è un giornalista freelance. Niente di tutto questo è stato pianificato, ha continuato a perdersi mentre andava in altri posti».
Poi è diventato un fenomeno letterario, perché il suo primo libro, Le sette morti di Evelyn Hardcastle, non solo è stato un successo di vendite tradotto in 26 lingue, ma ha pure vinto il Costa Award, dopo il Booker il più prestigioso riservato ad autori inglesi. Lui si è aggiudicato il riconoscimento per il romanzo di esordio nel 2018 tra 117 candidati. Un premio come il Costa cambia la vita di uno scrittore: prima non sei nessuno, poi il tuo nome appare accanto a quello di Zadie Smith (lo vinse con Denti Bianchi) o di Gail Honeyman (Eleanor Oliphant sta benissimo) o di Sally Rooney (è stata premiata per Normal People).
La giuria del Costa l’ha definito «geniale, intrigante e originale». Turton si schernisce, è convinto che non si riferissero a lui. E confessa: odio scrivere, con un candore che ricorda quello del famoso incipit di Open, dove Andrè Agassi svela il suo odio per il tennis.
Così, mentre in Italia esce il suo secondo romanzo, Il diavolo e l’acqua scura un altro thriller costruito alla maniera di Agatha Christie, eccolo al telefono che ci racconta come è andata. Ossia come è successo che a quasi 40 anni si è ritrovato scrittore.
Suo malgrado?
«Per la verità sono sempre stato attratto dall’idea di scrivere, direi da quando avevo otto anni. O forse dieci. Ero un grande lettore. E volevo scrivere un libro giallo come quelli di Agatha Christie, che già allora era il mio idolo».
Quando è che ci ha provato davvero?
«La prima volta quando avevo 21 anni. Avevo appena finito l’università. Avevo sempre questa idea del romanzo alla Agatha Christie che mi frullava in testa, ma non sapevo da che parte cominciare. Ho iniziato a scrivere, ma tutto ciò che poteva andare storto lo ha fatto. Non avevo una trama. I personaggi non funzionavano. Ho buttato tutto e sono partito».
Lì sono iniziati gli anni di vagabondaggio?
«Sì. Sono stato in Sud America a lavorare per dei giornali locali in inglese. Poi in Cina, a insegnare l’inglese ai cinesi. Poi ho viaggiato nel Sud Est Asiatico, dal Vietnam all’Indonesia. Poi in Australia. Per mantenermi e continuare i miei viaggi ho fatto di tutto: ho lavorato nelle fattorie, spalato cacca di capra, raccolto ogni tipo di frutta, ho fatto il manovale nei cantieri e pulito i bagni all’aeroporto, veramente il peggior lavoro del mondo. Ogni mattina mi svegliavo senza aver un piano preciso, il mio unico scopo era guadagnare dei soldi per continuare i viaggi».
Che non era un piano così malvagio. Com’è finito a fare il giornalista freelance di viaggi e tecnologia?
«Perché scrivere è l’unica cosa che so fare, mettere le parole una dietro l’altra mi riesce bene, mentre in tutto il resto ero un disastro. Il giornalista freelance era un lavoro bellissimo, che mi pagava anche piuttosto bene. A 30 anni mi sono ritrovato a Dubai, con un bell’appartamento, dei soldi, il lavoro ideale: viaggiavo spesato per due settimane al mese, incontravo un sacco di gente interessante, facevo interviste. Avevo una fidanzata. Mi piaceva».
Perché hai interrotto questo idillio?
«Sempre questa idea del romanzo alla maniera di Agatha Christie, il mistero della camera chiusa. Ogni due mesi ci riprovavo: mi sedevo e iniziavo a scrivere. Non funzionava, buttavo tutto. Finché un giorno mi è venuta l’idea giusta».
Quella dell’uomo che si sveglia ogni giorno nel corpo di un personaggio diverso che è alla base di Evelyn Hardcastle?
«Sì. In uno di quei miei tentativi ho capito che c’ero. Ho buttato giù di getto le prime cinquemila parole. Ed erano quelle giuste. Questa è l’idea, mi sono detto. E avevo ragione»
Quindi che ha fatto?
«Sono tornato in Inghilterra. Perché ho capito che non potevo scrivere quella storia, ambientata in un maniero di una famiglia altolocata inglese, stando in mezzo al deserto. Ma è stato difficile. Più pianificavo, più cercavo di annodare la trama, più tutto diventava complicato. È stato orribile per circa un anno».
Sembra il racconto di una lotta, più che di una creazione.
«Per me la scrittura è una lotta. È stato un incubo, ma non potevo mollare. Avevo rinunciato a troppe cose, avevo fatto trasferire la mia fidanzata a Londra, vivevamo in un minuscolo appartamento di due stanze, lei si faceva viaggi interminabili in metropolitana per andare a un lavoro che le faceva schifo. In una parola, eravamo molto poveri».
Però è andato avanti a scrivere.
«È stata un’esperienza terribile. Ma alla fine tutto ha iniziato a filare e il romanzo è uscito. Mi è andata bene. Sono stato molto fortunato con il primo libro».
E con questo secondo è stata la stessa lotta?
«Peggio. Perché ha coinciso con il primo anno di vita di mia figlia. Dormivo pochissimo, ero sempre troppo stanco per concentrarmi. Avevo studiato molto, mi ero documentato, ero stato a Amsterdam, in Indonesia per cercare le atmosfere e le ambientazioni, ero stato su un veliero. Ho scritto le prime cento e rotte pagine e non funzionava. Le ho buttate nel cestino. L’unica cosa che è rimasta dopo la distruzione della prima bozza sono state la nave e un paio di personaggi».
Viene da chiedere: ma chi glielo lo fa fare?
«Io odio scrivere. Mi piace camminare in montagna, nuotare, correre, incontrare gente. Sono una persona molto socievole e scrivere è la cosa più solitaria di tutte. Mi costa molta fatica sedermi e mettermi al computer. Ma è l’unica cosa che so fare, quindi…».
Quindi si lega alla sedia?
«Più o meno. Mi sono dato una routine molto stretta. Alle 8.30 lascio la bimba all’asilo e alle 8.40 sono alla scrivania con una tazza di caffè. È difficile essere scrittore di romanzi, dove i tempi sono così dilatati. Non hai un termine di consegna, come ero abituato quando facevo il giornalista freelance. Pensi di essere sempre in vacanza, devi convincerti che è un lavoro vero».
Cosa avrebbe fatto se non fosse riuscito a fare lo scrittore?
«Avrei potuto fare solo questo, raccontare storie. Casomai non avrei scritto romanzi, ma altre storie per i giornali, o per i videogames. Ma ora mi sento molto fortunato. Ho guadagnato bene, mi sono comprato una casa ed è un vero lusso non doversi più preoccupare dell’affitto. Non devo più scrivere articoli da freelance per mantenermi. Ma…».
Ma?
«Ora è un bel momento, tutto fila liscio. Ma penso chissà quanto durerà. Ho firmato un contratto per altri due libri. Due anni a libro fanno quattro anni, quindi a 45 anni potrei essere di nuovo a pensare a cosa fare dopo».
Ha venduto centinaia di migliaia di copie, hai vinto il Costa Award, perché preoccuparsi?
«Un premio letterario non ti cambia la vita. È stato meraviglioso, ma il libro aveva già venduto tanto con il passaparola. Credo che sia l’opposto, sono le vendite a incidere sui premi. È stato solo un sigillo a una cosa già avvenuta. Io sono abituato a vivere nel momento, non penso a cosa succederà dopo, non so dove vivrò né cosa farò. Potrebbe anche succedere che questo sia stato un successo effimero, che i prossimi libri saranno un disastro, che nessuno vorrà più pubblicarmi».
Sono i dubbi di tutti gli autori. Se il problema è questo, potrebbe davvero seguire l’esempio di Agatha Christie, pensare a una serie. Quelle funzionano sempre.
«Non mi ci vedo proprio. Per me scrivere deve essere inventare cose nuove, devo sentirmi libero, essere stimolato e avere delle sorprese io stesso, sennò non ci riuscirei proprio».
Anche come lettore è così ossessivo?
«Adoro leggere. Da ragazzino mi sono divorato Roald Dahl, Agatha Christie, Stephen King, Conan Doyle, Raymond Chandler. Poi ho scoperto la narrativa letteraria. Normalmente leggo due libri a settimana, anche se ultimamente ho meno tempo. Ora che scrivo romanzi anche io però faccio più fatica, perché mi ritrovo ad analizzare i testi, a pensare come avrei fatto io, a studiare la struttura».
Finirà con l’odiare anche la lettura?
«No, non credo. Adoro leggere e adoro le persone che leggono. Odio scrivere, ma amo leggere».