La Stampa, 7 novembre 2020
Intervista a Federico Forquet
Negli Anni Sessanta Federico Forquet era considerato il Dior italiano. Non lo scrisse una cronista qualsiasi, ma la più accreditata di tutte, Irene Brin. Il mensile inglese Queen lo chiamò «Federico The Great». Allievo di Cristobal Balenciaga, era famoso per i tagli magistrali, gli abiti toga, le asimmetrie, gli accostamenti di colori, i pigiama palazzo. Ha stregato le donne più eleganti del pianeta. Come Marella Agnelli, Jackie Kennedy, Diana Vreeland.
Dopo dieci anni di attività sartoriale, nel 1971, chiuse l’atelier di Roma in via Condotti. Il prêt-à-porter non faceva per lui. «Ciò che amava era l’alta moda», ricorda Allegra Agnelli, grande amica di sempre, e aggiunge: «Federico fa solo quello che gli pare». Così, decise di concentrarsi su arredamento e giardini riscuotendo un gran successo.
Nato a Napoli nel 1931, da una famiglia di origini francesi, ha ancora oggi una vita glamour. Si racconta dal buen retiro di Cetona dove ha una casa con un giardino meraviglioso. La scorsa settimana era impegnato al museo di Capodimonte per allestire le sale dedicate alla porcellana antica. Insomma, mai niente di cafone o di brutto. Lo ha capito Hamish Bowles, giornalista di Vogue America che gli ha dedicato un libro. Il volume, in inglese, è edito da Rizzoli New York. Le foto sono di Guido Taroni con i contributi dell’architetto di giardini Madison Cox, dell’antiquaria Alessandra di Castro, della scrittrice Benedetta Craveri e della storica della moda Sofia Gnoli, responsabile dell’archivio. Molte immagini, sono state scattate a Roma nei saloni di Palazzo Torlonia in via Bocca di Leone.
Nel gennaio del 1991 il palazzo subì un devastante incendio. Fu proprio Forquet a riarredarlo. Nel volume c’è anche una serie di foto fatte nelle case di Ginevra Elkann, Carlo e Polissena Perrone più altri committenti.
Come è nata l’idea del libro?
«Ho conosciuto Hamish Bowles a Tangeri, nel 2010, in occasione degli 80 anni di Pierre Bergé (ex socio di Yves Saint Laurent scomparso nel 2017 n.d.r.). E’ nata un’ amicizia. Hamish, oltre ad essere un giornalista, è anche un collezionista di moda, possiede diversi miei abiti. Nel 2015 mi telefonò proponendomi un libro sulla mia carriera. Gli dissi di sì, purché se ne occupasse lui. Venne in Italia nel 2018, a Ferragosto. E cominciammo a lavorarci».
Lei ha iniziato a Parigi, nella seconda metà degli Anni 50, con Cristobal Balenciaga. Cosa ricorda di lui?
«L’enorme disciplina. L’idea che il processo creativo funziona quando non si limita ad un’ idea di bellezza. Un abito è riuscito quando è al servizio di chi lo indossa».
In soli 10 anni di sartoria, ha avuto molte clienti famose. Di alcune è diventato amico?
«Certo. L’alta moda crea un rapporto di fiducia. Significa ascoltare la cliente, capirne il carattere. Mi sono sempre divertito a fare paragoni. Le italiane erano attente al dettaglio, le americane consideravano la moda come una disciplina. Prendevano tutto molto sul serio».
Si è occupato anche di cinema. Con quali attrici ha lavorato meglio?
«Faye Dunaway e Catherine Spaak. Quest’ultima diventò cliente anche fuori dal set. Eravamo amici. Faye Dunaway mi impressionò per l’eleganza e la bravura. Lavorai con lei nel 68 per un film di Vittorio de Sica, con Marcello Mastroianni, Amanti. Prima ancora, firmai gli abiti di Adriana Asti che recitava in Prima della Rivoluzione di Bertolucci. Erano capi dai tagli lineari, bianchi o neri. Attuali ancora adesso».
Moda, arredamento e giardini. Come ha adattato la creatività a discipline così diverse?
«In realtà sono ricollegabili tra loro. Decorazione di interni e giardini fanno parte di un simile processo creativo. Quello che conta è il rapporto con la committenza».
Quali consigli darebbe a chi vuole arredare una casa e ha pochi mezzi?
«Seguire i propri slanci. Se sei affezionato ai ricordi dei genitori, devi prendere ciò che trovi in soffitta o in cantina. Non bisogna fissarsi sulle tendenze, ma arredare la casa con ciò che ci serve. Se sei un avido lettore, riempila di libri, molto meglio che appendere quadri che non senti. Se sei socievole, devi puntare sulla convivialità con divani e poltrone. Facilitano la conversazione».
Sfogliando il volume si avverte una grande attrazione per il classicismo, come la spiega?
«L’ho respirato da quando sono nato. Da bambini ci portavano a fare i picnic ai Campi Flegrei, a Baia, a Cuma. Andavamo al museo archeologico di Napoli a studiare le collezioni trovate a Ercolano e Pompei. Da allora conservo l’amore per busti, obelischi, vasi. Ho avuto un’ educazione piena di bellezza. Studiavo pianoforte al Conservatorio poi un giorno ho abbandonato la tastiera per la moda».
Il suo lavoro di arredatore e quello di Renzo Mongiardino si somigliano. Sarà perché avete interagito tutte e due con Marella Agnelli?
«Ho sempre ammirato lo stile di vita di Marella. Come rendeva accoglienti le sue case. Renzo Mongiardino ed io assorbivamo da lei. L’idea di farle disegnare stoffe mi venne in mente perché aveva talento. Mi disse che invidiava il fatto che riuscissi a trasformare le mie passioni in un’ attività. Portai da lei il fabbricante di tessuti svizzero Gustav Zumsteg e cominciammo a lavorare insieme».
Quali sono gli stilisti attuali di moda che ammira?
«Pierpaolo Piccioli, direttore creativo di Valentino, è un vero couturier. Da quando lui e Maria Grazia Chiuri, ora da Dior, si sono separati hanno imboccato strade di gran successo. Sono cresciuti professionalmente dividendosi. Per altri motivi mi piacciono le idee di Alessandro Michele per Gucci. Divertente e attuale. Il suo ufficio a Roma è vicino a casa mia. Ci siamo incontrati per la strada, mi ha riconosciuto e riempito di complimenti. Non me lo aspettavo»...