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 2020  novembre 07 Sabato calendario

Biografia di Umberto Galimberti raccontata da lui medesimo

È sempre complicato parlare di un personaggio intellettualmente controverso. Soprattutto essendone amico. Ho una lunga anche se frammentaria consuetudine con Umberto Galimberti, il filosofo più amato, e in alcuni casi detestato, dalla vasta platea di coloro che lo seguono. Umberto è un uomo mite, compatto, con il dono della parola che sa porgere e a volte incantare. Spiega il difficile in modo semplice, senza banalizzare quell’eccesso di concettosità che avvolge la filosofia. Ha sembianze da vecchio operaio alla catena di montaggio, Umberto. E una testa raffinatissima. Un tale contrasto sembra riassumere le sue origini: «Sono nato povero, in una famiglia numerosa e ho dovuto ingegnarmi fino all’inverosimile per uscire da quella condizione», questo potrebbe dirci. Un amico, per quanto indulgente, non può ignorare la triste vicenda che lo coinvolse nel 2008 quando venne accusato di plagio e quell’accusa se ne portò dietro altre, al punto che il povero Umberto G. fu trattato alla stregua di un mostro copiatore, senza capire che quegli errori non annullavano tutto quanto egli aveva scritto in ambito filosofico e psicoanalitico. Ora ha pubblicato un denso volume per Feltrinelli Heidegger e il nuovo inizio, la cui lettura fa intravedere come certe scelte culturali di Galimberti nascano dalla riflessione soprattutto dell’ultimo Heidegger. Io propendo per il primo, ma questo è irrilevante.
Perché ritieni la lettura di Heidegger fondamentale?
«Innanzitutto perché a mio giudizio è il filosofo più importante del Novecento, come dimostrano le migliaia di saggi scritti in tutte le lingue su di lui. La sua tesi di fondo è che il pensiero occidentale è stato governato dalla metafisica inaugurata da Platone, la cui preoccupazione era quella di salvare gli enti, ossia le cose del mondo, per garantire all’uomo il loro possesso e la loro disponibilità. La tecnica è ai suoi occhi l’ultima e più radicale espressione della metafisica che ha inaugurato il pensiero come calcolo economico e tecnico, senza nessuna alternativa. Per questo privilegio l’Heidegger successivo a Essere e Tempo. Quello che ricerca un nuovo linguaggio, alternativo al pensiero unico, e prossimo al linguaggio dei poeti. Questo salto espressivo è apparso all’abituale pratica filosofica fumoso, quando non esoterico o mistico».
Tu come rispondi alle accuse secondo cui Heidegger è incomprensibile e astruso?
«La sua lingua è idonea a “pensare” più che a “conoscere”, nel senso che le conoscenze provengono dalla scienza, la quale secondo lui “non pensa” perché ciò che deduce proviene unicamente dalle premesse che pone; mentre il pensiero va alla radice delle parole per cogliere quanto vi è di segretamente custodito e trascurato dal pensiero che calcola».
Il pensiero che calcola, per intenderci, sarebbe il pensiero scientifico?
«Sì».
Non ritieni che questo pensiero strumentale che egli condanna nel nome di un pensiero aurorale, prescientifico, si spieghi meglio con il ricorso ai temi religiosi?
«Il pensiero aurorale è quello che precede la metafisica di Platone che solitamente consideriamo l’inizio del modo di pensare in Occidente. Heidegger ritiene che ci possa essere un “altro inizio” che effettivamente può presentare qualche suggestione religiosa. Anche se questa suggestione non si rifà al Dio cristiano (fondamento della metafisica) ma piuttosto alla mistica di Meister Eckhart e, come ha mostrato Hans Jonas, alla Gnosi».
Ancora oggi si discute dei suoi rapporti con il nazismo. Tu come giudichi la sua scelta?
«Distinguerei, come ha suggerito Gadamer, tra lo studioso e l’uomo. Heidegger non fu mai coraggioso e oltretutto poco interessato alla politica. Accettò di diventare Rettore per riformare l’università pensando ingenuamente che, rispetto ai 22 partiti allora esistenti in Germania, il nazionalsocialismo gli poteva offrire questa possibilità. È evidente che prese una cantonata ma nel 1934 lasciò il rettorato anche a causa di alcuni professori nazisti che non riconoscevano nel suo pensiero la visione del mondo propria del partito nazionalsocialista».
Questa versione fu in larga parte smentita da Karl Jaspers che alla fine della guerra decretò l’allontanamento dell’ex amico dall’insegnamento universitario.
«È vero. Jaspers nominato nella Commissione per la denazificazione delle università tedesche fu d’accordo, con gli altri commissari, Nicolai Hartmann e Romano Guardini, nel riconoscere la sua adesione al nazismo e la relativa sua sospensione dall’insegnamento. Nondimeno, sottolineò sempre la grandezza del filosofo: “In Germania, scrisse, non c’è nessuno che sia all’altezza di un confronto con lui”. In pratica con quel parere lo riammetteva all’insegnamento. Nonostante questo riconoscimento, i rapporti tra i due non si ricomposero più».
Nel tuo periodo trascorso in Germania so che hai conosciuto Jaspers. Come avvenne?
«Nel 1963 andai in Germania per imparare il tedesco.
La mattina studiavo al Goethe Institut e per mantenermi il pomeriggio lavoravo in una fabbrica di tessuti. Poi vinsi una borsa di studio ed entrai in contatto con Hans Saner, assistente di Jaspers che ebbi modo di incontrare più volte nella sua abitazione di Basilea. Avevo 22 anni e puoi capire quanto quel confronto fosse importante per uno che fino a quel momento avevo avuto nella vita solo quello che era riuscito a guadagnarsi con sforzi notevoli».
Quando dici sforzi che intendi?
«Sono l’ottavo di dieci figli, mio padre era un impiegato di banca e mia madre una maestra. Quando mio padre morì, avevo 14 anni. Tutti noi fratelli decidemmo di metterci a lavorare. Le mie sorelle frequentavano l’università e facevano anche le donne di servizio. Io suonavo l’organo in occasione dei matrimoni e dei funerali. Parlavamo di sforzi. Beh queste condizioni di vita non furono un ostacolo alla mia crescita, negli anni Cinquanta erano comuni a molti italiani. A me hanno insegnato un forte principio di realtà che ancora oggi mi consente di distinguere i problemi veri da quelli inventati».
Ti sei laureato alla Cattolica con Emanuele Severino, hai condiviso le sue idee e poi te ne sei distaccato. Esiste il “trauma felice”?
«“Trauma felice” è una giusta espressione. Con Severino ho avuto rapporti per sessant’anni e ho cenato con lui ancora un mese prima che morisse. Lo considero con Heidegger il più grande filosofo del Novecento. Non ero in grado di fare obiezioni al suo sistema che mi pareva inscalfibile. E allora mi dedicai ai temi del mondo della vita. Scrissi un libro sul corpo che mi procurò un grande successo, ma anche, come peraltro mi aveva avvertito Severino, tanti guai accademici».
Dai temi del corpo sei passato a quelli dell’anima, addentrandoti nel territorio della psicoanalisi. Che percorso è stato?
«Negli anni Settanta la psicoanalisi incuriosiva tutti e io in quel mondo ero stato avviato da Jaspers. Ebbi anche qui dei grandi maestri: Mario Trevi, con il quale condussi il mio percorso di formazione psicoanalitica, ed Eugenio Borgna con il quale frequentai per tre anni il suo ospedale psichiatrico a Novara, per rendermi conto delle condizioni psicotiche dei malati.
Esperienza che mi servì per capire meglio quelle nevrotiche che avrei incontrato nella pratica analitica».
Uno dei frutti di questo tuo lavoro è stato il Dizionario di psicologia che è uscito in forma aggiornata un paio di anni fa (per Feltrinelli). Lo dedichi a Jaspers. È così importante la relazione tra filosofia e psicoanalisi?
«La contaminazione jaspersiana di psicologia e filosofia è diventata la cifra del mio lavoro. Sono convinto che i progressi della psicologia nel Novecento in ambito psicoterapeutico li hanno determinati filosofi come Heidegger, Jaspers, Sartre, Merleau-Ponty, Foucault e lo stesso Basaglia che per chiudere i manicomi si ispirò alla psichiatria fenomenologica».
Tra chi ha collaborato al Dizionario c’è tua moglie,
scomparsa da qualche anno. Cosa rappresenta la morte di chi ci è prossimo?
«Tatjana è stata per 41 anni la mia stessa esistenza. Ha insegnato all’università di Milano biologia molecolare e biotecnologie. Dopo di lei la mia vita si è letteralmente spenta. Faccio le cose perché sono capace di farle, ma non sono più interamente nelle cose che faccio. Mi manca il testimone. E tutti abbiamo bisogno di qualcuno che ci guarda».
A cosa si espone chi pratica la psicoanalisi?
«Al contagio. Perché se vuoi aiutare qualcuno devi partecipare emotivamente alla sua condizione».
Che valore dai alla parola guarigione?
«La psicoanalisi non guarisce, ti porta semplicemente alla conoscenza e alla consapevolezza di sé, perché vivere a propria insaputa non mi pare una bella condizione».
Cosa pensi delle neuroscienze e del loro impetuoso sviluppo legato alla tecnologia?
«Le neuroscienze tentano di spiegare scientificamente i disturbi psichici, ma non sono in grado di coglierne il significato».
Tu parli spesso di “dominio della tecnica”. Non credi che liberare l’uomo da questo dominio possa essere inutile e perfino dannoso?
«Freud diceva che l’umanità ha rinunciato a una grossa fetta della sua felicità per un po’ di sicurezza. La tecnica rassicura in quanto è la più alta forma di razionalità mai raggiunta dall’uomo, la quale consiste nel conseguire il massimo degli scopi con l’impiego minimo dei mezzi. Ma l’uomo è anche irrazionale, perché irrazionale è il dolore, l’amore, la fantasia, l’immaginazione, l’ideazione, il sogno. Per la tecnica sono tutti elementi di disturbo. Se la tecnica diventa il modo di pensare in generale, l’uomo esce dalla storia».
Ci sono storie generali con la esse maiuscola e altre più individuali. Sei stato accusato di plagio. Non credo che tu avessi bisogno di copiare. Ma è solo la mia opinione. Come ti sei sentito e cosa ti rimproveri?
«Negli ultimi mesi di vita di mia moglie ho copiato, ma solo dai miei scritti. Nelle recensioni ho inserito frasi dell’autore senza virgolettarle. Quando quelle recensioni uscivano nessuno se ne è lamentato».
Ma l’assenza di virgolette, riscontrata in diversi brani, ti ha scatenato contro l’accusa di plagio.
«Quando uscì il mio libro, L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani, ci fu una recensione infuocata da parte del cardinal Ruini e poi una trentina di articoli nei giornali di destra. Fui massacrato. Il libro oltretutto era in classifica da una ventina di settimane. Ho adottato l’insegnamento degli Stoici greci: reggi il dolore e astieniti dal metterlo in scena».
Credo che tu abbia pagato un prezzo alto, anche in tribunale. Ora invochi gli Stoici e il distacco dalle cose. Ma so che ne hai sofferto terribilmente.
«Mi sono esercitato nel dolore. Ma poi penso: davvero avevo bisogno di copiare? Erano frasi verificabili, ripeto frutto di recensioni, il mio errore è stato a distanza di tempo di non attribuirle a chi le aveva scritte. È buffo, ma per uno che ha progettato e composto un “Dizionario di Psicologia” dove ogni voce è introdotta e virgolettata da chi l’ha ideata, l’accusa di plagio appare profondamente ingiusta».
Che cos’è per te originale e cosa è copia?
«Originali sono i grandi pensatori che cambiano radicalmente il modo di interpretare il mondo. Ne nascono tre o quattro in un secolo. Gli altri se non sono copia, sono commentatori».
Oggi ti senti più forte o più fragile rispetto a quella vicenda?
«Se ritieni di essere nel giusto, o quanto meno di non aver voluto danneggiare nessuno intenzionalmente, l’accusa ti pesa ma non ti porta a fondo».
Sei un filosofo di successo. Qualcuno ti può scambiare per un “guru”. Non hai l’impressione di far parte anche tu della società dello spettacolo?
«È un rischio da cui cerco di difendermi il più possibile. Esco solo per fare conferenze e non faccio vita sociale.
Penso però che la filosofia non debba essere solo una faccenda accademica, perché più è alla portata di tutti, più tutti hanno un’occasione per pensare. Quanto allo spettacolo ho sempre pensato che la cattedra è anche un palcoscenico e tutti i professori dovrebbero fare un corso di teatro per insegnare».