Che cosa l’ha colpita di Ise Frank?
«Mentre leggevo con gli studenti La nuova casa: La donna creatrice di Bruno Taut, del 1924, scoprimmo che le invenzioni ergonomiche importate dall’America furono sperimentate a Dessau nella casa che Gropius costruì per sé e Ise. Fu lei, insieme a Taut, a disegnare gli interni della “donna emancipata moderna”. Pur non essendo architetto, ma giornalista e scrittrice, Ise è stata l’anima del movimento riformista di Gropius».
Il libro è anche il ritratto di quel movimento, di una generazione geniale stretta tra enormi tragedie. Chi l’ha affascinata di più?
«Non posso fare classifiche: l’audace spirito di scoperta di Marcel Breuer, l’intelligenza effervescente di László Moholy-Nagy, la determinazione di Marianne Brandt, la postura aristocratica e lo humour della madre di Gropius, Manon».
Di questo gruppo solo Ise e Irene Hecht seppero intuire il futuro.
«Già alla fine del 1927 Ise si rese conto dei rischi che correvano i docenti e gli studenti del Bauhaus, disprezzati dall’emergente partito nazista. Insieme all’amica fotografa Irene Hecht, escogitò un piano di fuga. Mentre i grandi maestri della scuola ancora credevano nella stabilità democratica di Weimar, loro intuirono che il “metodo Bauhaus” doveva migrare altrove. Avevano agganci a Parigi, Istanbul e New York. Fu Ise, con Gropius e Herbert Bayer, a curare la mostra al MoMA di New York nel 1938. Senza di lei la memoria della scuola negli anni tumultuosi della guerra si sarebbe dispersa».
Anche grazie a Ise, invece, nel 2019 abbiamo celebrato un secolo dalla nascita del Bauhaus. Quanto c’era di idealistico nella sua lezione e quanto di valido ancora oggi?
«Di idealistico c’era solo il credere in una repubblica di Weimar durevole. Un’avanguardia del “pensare e fare un nuovo Stato” diede l’intera esistenza per l’idea democratica. Oggi, nel dibattito sul futuro, mi rifaccio a ciò che si sognava allora: le questioni erano simili a quelle attuali. Un’ondata di profughi dall’est, di tradizioni rurali, invase l’Europa centrale industrializzata; una brutale epidemia, la spagnola, condannò le vite scampate alle trincee; la crisi del mercato azionario minacciava l’economia. Fu in questo scenario che Walter e Ise Gropius, László Moholy-Nagy, Marcel Breuer e Siegfried Giedion immaginarono la città “ecologica”».
Che cos’era la “citta ecologica”?
«Nei quartieri ideati da Gropius, May, Taut, Tessenow o Häring si sperimentarono il riciclaggio dell’acqua piovana, l’energia solare e geotermica, le turbine eoliche e gli involucri termici intelligenti degli edifici. Si sognava una città che “ascoltava i bisogni dei suoi abitanti”, che li integrava nel processo di creazione delle case e dei luoghi di incontro, di lavoro, di svago. Ciò grazie all’innovazione didattica in architettura e urbanistica: l’insegnamento divenne una pratica attiva, sperimentale. Il concetto di homo faber, sviluppato da Hannah Arendt, ne fu la conseguenza logica. Infine, si voleva “una città di brevi distanze”: i quartieri popolari non erano fuori città, ma negli interstizi urbani. Berlino, Colonia, Francoforte ne sono i testimoni. Ma anche nei villaggi più piccoli, per esempio a Dessau Törten, si faceva lo stesso».
Che cosa accadde con l’esilio e lo sterminio dell’avanguardia riformista in Europa negli anni ’40?
«Si lasciò spazio alla dottrina della “città a misura della macchina” di Le Corbusier: lo zoning, la tabula rasa, la macchina per abitare sono gli errori fatali dell’urbanismo del dopoguerra. Solo negli anni ’70 si ripensa la relazione tra uomo e territorio: Christopher Alexander a Berkeley, Jane Jacobs a New York, Giancarlo de Carlo e Aldo Rossi a Venezia formuleranno le basi teoriche di una “città a misura d’uomo” partecipativa ed inclusiva».