Robinson, 7 novembre 2020
La rivoluzione di Aldo Manuzio
«Punto, due punti, punto e virgola! Fai vedere che abbondiamo». Se Totò e Peppino possono strapazzare le leggi della punteggiatura nella leggendaria scena della lettera di Totò, Peppino e la malafemmina, lo dobbiamo all’uomo che quelle leggi le ha fissate, dando dei punti alla nostra scrittura. Quest’uomo è Aldo Manuzio, che ha fatto del libro uno dei simboli della modernità, mostrando a chiare lettere che con la cultura si mangia. Come racconta Alessandro Marzo Magno ne L’inventore di libri (Laterza), un bel libro dedicato al personaggio simbolo della Venezia rinascimentale, che trasforma l’arte della stampa in un marketing globale.
In realtà il principe degli editori lagunari non è nato a Venezia, ma a Bassiano, una cittadina dell’attuale provincia di Latina. Ma tra Quattrocento e Cinquecento la Serenissima è diventata la capitale mondiale dell’industria libraria. Grazie a una massiccia campagna di investimenti dei patrizi, che scommettono sulla nuova invenzione di Gutenberg. Fra Rialto e Cannaregio alla fine del Quattrocento sono in funzione 200 torchi dai quali esce il 15% dei libri europei e addirittura il 75% di quelli italiani. Ma se Manuzio ha bisogno di Venezia per spiccare il volo, la città ha bisogno di un talento innovatore e visionario come quello di Aldo per trasformare la tipografia in editoria. E Manuzio è stato questo, un raffinato intellettuale con la vocazione dell’imprenditore, metà Bobi Bazlen e metà Arnoldo Mondadori. Parla correntemente molte lingue, morte e vive. Conversa in greco antico e si lega a una serie di figure chiave della politica e della cultura del suo tempo. Da Pico della Mirandola, di cui diventa un quasi-parente, a Erasmo da Rotterdam, dal bibliofilo Pierfrancesco Barbarigo, nipote di doge, al grande Pietro Bembo. Fino agli strepitosi umanisti greci, i funamboli dell’aoristo, gli apostoli dello spirito dolce, provenienti da Creta e da Costantinopoli. Due nomi per tutti, Marco Musuro e Demetrio Calcondila. Oltre a Costantino Lascaris il cui Erotemata, la grammatica su cui Erasmo impara il greco, apre il catalogo aldino. Siamo nel 1495, anno in cui inizia l’irresistibile ascesa del signore che dà del tu ai caratteri e fa della grafica una forma d’arte. Da allora pubblica di tutto, dalle humanities alle opere scientifiche, dal Dioscoride, testo chiave della farmacopea alla Summa de arithmetica di fra’ Luca Pacioli, il grande matematico inventore della partita doppia. Anche se, da raffinato umanista qual è, il linguaggio degli scienziati gli appare rozzo e privo di sfumature.
La sua passione sono i classici, soprattutto greci poi anche latini. È all’insegna della sua casa editrice che vede la luce la prima edizione a stampa di tutto Aristotele. Un’opera in cinque volumi che vale un patrimonio. E rende molto all’editore. La prima copia Aldo la dedica ad Alberto Pio nipote di Pico della Mirandola, un po’ per affetto un po’ per strategia. Perché le dediche servono a coltivare le relazioni con i potenti. Inoltre, l’editore firma spesso e volentieri le prefazioni, per fidelizzare i lettori, ma anche per lanciare le prossime uscite. Insomma, un drago della comunicazione e del marketing.
Ma la vera rivoluzione manuziana è il tascabile, la cosiddetta Aldina. Che mette fine all’epoca del libro a due piazze, inamovibile, illeggibile senza leggio. Consultato solo per studio e per lavoro, preghiera e liturgia. Roba indigeribile, da studenti e professori, giuristi e medici, preti e cuochi. Mentre i libretti di Aldo, colti e popolari, li leggono tutti, per piacere, per passare il tempo, per darsi delle arie. Di fatto il genio di Bassiano inaugura l’era di homo legens, dalla quale non siamo ancora usciti. Non a caso i nostri pocket hanno ancora le dimensioni delle Aldine. E fra un bestseller e l’altro, lo Steve Jobs del cartaceo si toglie altri sfizi editoriali. Come la pubblicazione della leggendaria Hypnerotomachia Poliphili, il libro illustrato più bello di sempre.
E ad ogni edizione Manuzio inventa font che noi usiamo ancora, come il corsivo, il Bembo, o il Times New Roman. E perfino quello che va sotto il nome di Garamond, dal noto incisore parigino del Cinquecento, a onor del vero, è farina del sacco di Aldo e del suo collaboratore Francesco Griffo.
In realtà la febbre creativa che regna nell’officina di Manuzio non risparmia nemmeno gli autori più illustri. Fra questi il grande Erasmo da Rotterdam, che rivede le pagine dei suoi Adagia tenendole sulle ginocchia, come l’ultimo dei correttori e le passa una dopo l’altra ai tipografi. Gli operai le compongono e le affidano alle mani di Aldo. Lui odora i fogli, si chiude nel suo studio e da quel momento non c’è per nessuno, nemmeno per il Doge. E ho detto tutto!