Robinson, 7 novembre 2020
Su "Diventare Pirandello" di Annamaria Andreoli (Mondadori)
La storia ( la biografia) di Luigi Pirandello è di per sé un infinito romanzo che ruota intorno ad un artista inquieto, sempre pronto a sognare la gloria e a soffrire perché ritarda, non arriva, mentre puntuali si addensano nubi di ogni genere, problemi economici e poi, via via, problemi famigliari e l’invidia per chi ha avuto, invece, subito successo e si chiama, non è un mistero, Gabriele d’Annunzio. Pirandello diventerà grandissimo, il suo teatro conquisterà il mondo intero, rivoluzionando le scene e imponendo personaggi che cercano se stessi: una guida originalissima al tormentato uomo contemporaneo… Poi, nel ’34, ci sarà il Nobel però a due anni appena dalla morte, che, lasciò scritto, voleva affrontare da solo, il corpo avvolto in un lenzuolo e nient’altro. Le ceneri erano destinate alla villa del Caos, dove era nato nel 1867 e dove ora c’è un museo a lui dedicato. Siamo nei dintorni di Agrigento, che allora si chiamava ancora Girgenti, dove tutto era cominciato e che sarebbe sempre rimasta il polo siciliano di una vita spesa in gran parte altrove e soprattutto a Roma dove cambiò un numero incredibile di case a seconda delle necessità e possibilità del momento. I Pirandello erano ricchi, ma non senza improvvisi tracolli: Stefano, il padre, possedeva miniere di zolfo che ad un certo punto fallirono, ma intanto Luigi era stato mandato a studiare prima a Palermo e poi a Roma e poi a Bonn, dove si era laureato con una tesi sul dialetto di Girgenti tradotta in tedesco. Era il momento in cui trionfavano nuove filologie, cui Luigi, spinto da Ernesto Monaci, si era adattato, ma non senza resistenze. Che importava a lui della filologia romanza e della glottologia? Lui voleva scrivere, non restaurare o studiare i manoscritti altrui. È l’epoca in cui diventa un formidabile bugiardo. Annamaria Andreoli, che presiede l’Istituto di studi pirandelliani di Roma, ma che da studiosa e biografa di d’Annunzio, ha diretto anche il Vittoriale degli Italiani, ha appena pubblicato da Mondadori Diventare Pirandello, un cospicuo saggio che sulla base di numerosissimi documenti anche inediti testimonia, appunto, la complessa vicenda dell’autore dei Sei personaggi, prima del successo. Proprio il fatto che fin da ragazzo si fosse allontanato da Girgenti per studiare ci permette oggi di rileggere quegli anni nelle moltissime lettere che inviava a casa. Si può dire che per la propria famiglia Luigi recitava volentieri e riempiva le lettere di notizie su ciò che stava scrivendo o progettando attribuendosi incontri e successi spesso mai avvenuti. Era arrivato ad anticipare la tesi e la laurea, chiedendo al padre i soldi per un vestito adeguato alla cerimonia finale, quando nulla di tutto ciò era alle porte. Intanto cominciavano i primi amori: imbastì una promessa di matrimonio con un cugina di primo grado che si chiamava Lina, come l’amata sorella. Ma in Germania avrebbe avuto una ragazza, di nome Jenny, che era la figlia della sua padrona di casa. Con Lina ruppe, inventandosi una malattia che, in caso di matrimonio, lo avrebbe portato addirittura alla morte.Con la sua morte, molte volte minacciata, ci giocò anche in letteratura.
Il fu Mattia Pascal è la storia, come si sa, di un uomo che si finge morto dopo aver vinto una bella somma al Casinò di Montecarlo. Se oggi quel romanzo è considerato un classico, testimonianza dell’umorismo pirandelliano cresciuto sui racconti di Alberto Cantoni, non fu così al suo primo apparire agli inizi del Novecento. Vorrei essere morto anch’io, andava scrivendo al giovane amico Luigi Antonio Villari, Il fu Mattia Pascal romanzo del fu Luigi Pirandello. Ecco un frontespizio sul quale pioverebbero gli elogi e il volume andrebbe a ruba. Ma se non amava i giudizi tiepidi o stroncatori, Pirandello era tuttavia pronto a ferire i nemici. «Non perde occasione», scrive l’Andreoli, che un po’ si diverte a cogliere le debolezze dei letterati, «di denigrare Pascoli e d’Annunzio».
E quando escono I Canti di Castelvecchio e le Laudi confessa di detestarli con tutte le forze dell’animo. Ma Gabriele è sulla cresta dell’onda e non si cura dei detrattori, mentre Pascoli, seccato, lo chiamava Pindirindello. E non parliamo della sofferenza con cui Luigi aveva assistito alla prima della Francesca da Rimini di d’Annunzio al teatro Costanzi di Roma, che fu l’occasione per far nascere sul Giornale d’Italia di Alberto Bergamini, la poi famosa terza pagina. Molti anni dopo, celebrando a Catania gli ottant’anni di Verga, Pirandello non perde l’occasione per attaccare ancora una volta d’Annunzio, che ha deviato gli animi con un “abbaglio fascinoso”, mescolando arte e vita. Scopertosi prima poeta e poi narratore, Luigi è alla continua ricerca di un giornale o di una rivista che accolga i suoi lavori. Ma quando approda al Corriere della Sera gli fanno talvolta osservare che le sue trame turbano i lettori, mentre d’Annunzio, sempre lui, tra cronaca e poesia, trascina le folle e il giornale aumenta vertiginosamente la tiratura. Attraversare, come fa l’Andreoli, la vita di Pirandello significa anche inoltrarsi nella minuta cronaca letteraria romana del primo Novecento. Si incrocia il piemontese Giovanni Cena, redattore capo della Nuova Antologia, con cui Pirandello fa amicizia. Si incrocia Grazia Deledda, che aveva avuto una storia con Emilio Cecchi, molto più giovane di lei, vincitrice del Nobel nel ’ 26. Pirandello non la ama, ricambiato. E si incrocia, tra i molti siciliani trasferiti nella capitale, anche Luigi Capuana, col quale i rapporti si incrineranno. Capuana era pieno di debiti, si era messo con una donna molto giovane e poi aveva tentato anche il suicidio sdraiandosi sui binari della ferrovia. Dei nemici Pirandello si vendica scrivendo. Intanto, tornando al privato, Luigi si è sposato, accettando una proposta del padre, non proprio disinteressata. La sposa, Antonietta Portolano, è una cugina di secondo grado ed è figlia di un socio di Stefano Pirandello. Porterà in dote settantamila lire, che il padre intende usare per salvare le miniere, garantendo a Luigi, settemila lire di rendita annua. Non poche, se si pensa che con il suo lavoro di professore di stilistica al Magistero, Pirandello guadagna circa tremila lire all’anno. Non gli bastano, mentre Pascoli, che è andato ad insegnare anche a Messina ed è accudito da una sorella economa, se le fa bastare. Antonietta darà tre figli a Luigi. Stefano, partito poi volontario per la Grande Guerra e subito fatto prigioniero, Lietta e Fausto, poi divenuto un ottimo pittore. La vita coniugale non è semplice. Luigi oltretutto non va d’accordo con il suocero. Mentre Pirandello sta diventando Pirandello, Antonietta precipita nel pozzo senza fondo della malattia mentale e finirà in una clinica di lusso per il resto dei giorni. A consolare il padre, preda delle sue ansie da scrittore, provvede il figlio prigioniero. Un ennesimo rovescio delle parti. Il saggio dell’Andreoli ci conduce fino agli anni Venti, quando nella vita di Pirandello compare l’astro di Marta Abba, che diverrà il centro della sua passione e del suo teatro. Ma questo è un altro capitolo: tra l’altro le lettere alla Abba hanno fruttato anni fa un intero Meridiano, pieno di fuoco, ma anche di tormenti.