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 2020  novembre 07 Sabato calendario

Su “Harvey” di Emma Cline (Einaudi)

Riusciamo a sentire l’odore dello zolfo. Riusciamo a immaginare le furie e le censure che Harvey attirerà come una calamita ( nelle interviste sui giornali americani, l’intreccio tra cronaca e fantasia è troppo ghiotto per lasciarselo sfuggire). Emma Cline non aggiunge mai il cognome. Tutti gli indizi rimandano a Harvey Weinstein, travolto da una valanga di accuse e condannato lo scorso marzo a 23 anni di carcere. Per abusi sessuali.
È la notte prima della sentenza, in una villa del Connecticut. Un uomo piuttosto malmesso cerca di tirar mattina, afflitto ma tutto sommato speranzoso: «il mondo che gli si sagomava intorno» non può essere sparito all’improvviso. Tornerà. Con «la predilezione che Dio aveva mostrato per certe persone», e lui si sente ben messo nella lista. Per i malanni alla schiena, arriverà un medico con l’infermiera, e una magica sostanza che allevia i dolori. Per l’orgoglio ferito e il potere perduto, calcola che gli dovranno ricambiare «un milione di favori».
Emma Cline aveva fatto il suo trionfale ingresso sulla scena letteraria – categoria: anticipi miliardari per romanzi di culto immediato – con Le ragazze ( sempre Einaudi, 2016). La storia di una quattordicenne del 1969, attirata in una comune promiscua e strafatta. L’escalation sarà atroce, fino all’omicidio. Anche il lettore meno interessato alla cronaca nera aveva chiari i parallelismi con la setta di Charles Manson. Altrettanto innegabile era il talento della scrittrice nata nel 1989. Certificato da Richard Ford, molto meno generoso di Jonathan Franzen in quanto a frasi da scrivere sul risvolto: «Un romanzo magnifico e struggente. Straordinario non solo per un’autrice cosí giovane, ma per qualsiasi scrittore».
Questo racconto era uscito l’estate scorsa sul New Yorker, con il titolo Rumore bianco. Proprio come il romanzo scritto nel 1985 da Don DeLillo, che fa la sua comparsa a pagina 20. Come personaggio: è il vicino di casa che esce sul vialetto in pigiama e stivali di gomma per ritirare il giornale. Subito riconosciuto da Harvey, che era nel parco per telefonare – la servitù ha firmato un accordo di riservatezza, ma la prudenza non è mai troppa.
Scambiano un cenno di saluto. Il cervello del produttore che «trasformava in Oscar quel che toccava» comincia a fare progetti ( era la sua etichetta, prima che cadesse in disgrazia e diventasse il Molestatore Numero Uno di Hollywood – in questo ordine). Sarebbe – pensa – una grandiosa idea rientrare in pista con un film tratto da un romanzo considerato “inadattabile”. Del resto la Miramax, prima di finire nell’Universo Disney, era nata nel 1979 per distribuire film indipendenti.
Le ragazze non aveva scandalizzato nessuno. L’adolescente in cerca d’amore che diventa assassina è evidentemente più accettabile del predatore che si aggira con il braccialetto elettronico alla caviglia, abbastanza lasco per poterci infilare sotto i calzini rossi papali, fatti arrivare dal Vaticano. Né scandalizzerano i racconti di Daddy, la raccolta di racconti firmata Emma Cline già uscita negli Usa: altro campionario – il titolo è ambiguo – di uomini poco raccomandabili e ragazze bisognose d’amore e di ancoraggio. Harvey ci sarebbe stato benissimo. E in generale, molte sono le storie che sfruttano la luce riflessa dei processi, la tecnica è collaudata. Già esiste un film — L’assistente, scritto e diretto da Kitty Greene – cresciuto all’ombra di Harvey Winstein.
Rispetto al romanzo, Emma Cline ha abbandonato la quantità esagerata – e studiatissima – di svolazzi lirici a vantaggio della precisione. Un bel passo avanti, anche quando sulla pagina bisogna rendere il delirio. Procurato dagli analgesici che finalmente fanno effetto. Generato da una mente che rimugina sulla «sfortuna mastodontica che aveva portato via la luce dalla sua vita», e ora potrebbe portargli via tutto il resto. Harvey non si rassegna, pensa a chi rilasciare la prima intervista quando sarà assolto. Per intermezzo comico, tra il dolore e l’incredulità, il ricordo di una gita in Kashmir. Il guru pronuncia il suo mantra, Harvey non lo sente perché tira su col naso, troppa roba gasata nello stomaco.
A rigore, secondo le moderne regole che stanno risucchiando i romanzi dentro i confini dell’autobiografia, Emma Cline non potrebbe scrivere di uomini, né valorosi né schifosi, meno che mai oltre la mezza età. Concesse solo le storie tra ragazze o le dinamiche di gruppo: aveva tre sorelle in una famiglia di sette figli. Figuriamoci se può entrare nella testa del Grande Predatore ( ha dovuto precisare che si è trattato di curiosità non di assoluzione, questione che nessuno oserebbe porre a uno scrittore di sanguinolenti thriller).
Siamo di fronte a un romanzo, per quanto breve. Meglio seguire un’altra pista. L’apparizione di Don DeLillo potrebbe essere una delirante fantasia, e il titolo alludere al film Harvey di Henry Koster, con James Stewart. La storia di un amico immaginario, che lì era un gigantesco coniglio, e qui lo scrittore di Rumore bianco e di Underworld.