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“Lettere di Fëdor Dostoevskij” (il Saggiatore, a cura di Alice Farina, traduzione di Giulia De Florio, Alice Farina e Elena Freda Piredda, pagg. 1372, euro 75) comprende finalmente la raccolta più completa dell’epistolario dell’autore di Delitto e castigo. Si tratta di 455 scritti inviati a familiari, amici ed editori, tutti ritradotti e alcuni pubblicati in Italia per la prima volta.
A M.M. Dostoevskij, 22 dicembre 1849, San Pietroburgo, fortezza di Pietro e Paolo
Fratello, amico mio caro! È deciso! Sono stato condannato a 4 anni di lavori forzati nella fortezza ( di Orenburg, a quanto pare) e poi nei ranghi dei soldati semplici. Oggi, 22 dicembre, ci hanno portato sul patibolo della piazza d’armi Semënovskij. Ci hanno letto la sentenza di morte ( Dostoevskij era stato condannato per aver frequentato un circolo di socialisti utopici accusati di eversione, ndr), ci hanno fatto baciare la croce, hanno spezzato sopra la testa le spade e ci hanno fatto la toeletta del condannato ( camicie bianche). Poi ne hanno messi tre al palo per eseguire la condanna. Ero il sesto, ne chiamavano tre alla volta, perciò a me toccava il secondo turno e mi restava da vivere non più di un minuto. Mi sei tornato in mente tu, fratello, e i tuoi cari; nell’ultimo istante tu, soltanto tu, eri nei miei pensieri, e lì ho capito quanto ti voglio bene, fratello mio caro! Ho fatto in tempo ad abbracciare Pleš?eev, Durov, che mi stavano accanto, e dirgli addio.
Alla fine è stato dato il segnale della ritirata, hanno ricondotto indietro quelli legati al palo e ci hanno letto che Sua Altezza imperiale ci risparmiava la vita. Quindi sono seguite le vere condanne. Soltanto Pal’m è stato graziato. Torna nell’esercito con lo stesso grado. Mi hanno appena detto, fratello caro, che oggi o domani ci fanno partire. Ho chiesto di vederti. Mi hanno però detto che è impossibile; ti posso soltanto scrivere questa lettera, sbrigati anche tu a darmi un cenno di risposta. Temo che fossi in qualche modo a conoscenza della condanna ( a morte). Dal finestrino della carrozza che ci portava sulla piazza d’armi Semënovskij ho visto una marea di gente; può darsi che la notizia fosse giunta anche a te e che tu stessi in pena per me. Ora sarai più sollevato. Fratello! Non mi sono scoraggiato né perso d’animo.
La vita è vita ovunque, la vita è dentro di noi, non al di fuori. Intorno a me ci saranno altri uomini, ed essere un uomo tra gli uomini e rimanerlo per sempre, qualunque disgrazia capiti, senza lamentarsi, non perdersi d’animo — ecco in che cosa consiste la vita, qual è il suo scopo. Me ne sono reso conto. Quest’idea si è fatta di carne e sangue. È la verità! Quella testa che creava, si nutriva della vita superiore dell’arte, che ha compreso e si è abituata alle nobili esigenze dello spirito, quella testa ormai si è staccata dalle mie spalle. Ne è rimasto il ricordo e le immagini create, ma rimaste ancora senza forma. Lasceranno cicatrici, è vero! Però in me è rimasto il cuore, e quella carne e quel sangue che ancora possono amare, soffrire, desiderare e ricordare, e in fondo anche questa è vita! On voit le soleil!
Ad A.G. Dostoevskaja, 24 maggio 1867, Homburg
Anja cara, amica mia, moglie mia, perdonami, non chiamarmi mascalzone! Ho compiuto un misfatto, ho perso tutto ciò che mi hai inviato, tutto, tutto fino all’ultimo kreuzer, ieri ho ricevuto il denaro e ieri l’ho perso. Anja, come potrò guardarti ora, cosa dirai di me adesso! Una cosa soltanto mi terrorizza: cosa dirai, cosa penserai di me? Solo il tuo giudizio per me è temibile! Potrai e vorrai mai stimarmi ora? E che cos’è l’amore senza la stima? Per questo tutto il nostro matrimonio ha vacillato. Oh, amica mia, non incolparmi una volta per tutte! Il gioco mi è odioso, non soltanto adesso, ma anche ieri e l’altro ieri, l’ho maledetto; dopo aver ricevuto i soldi ieri e aver cambiato la banconota, sono andato a giocare con il pensiero di recuperare almeno qualcosa, di aumentare almeno di un poco le nostre finanze. Credevo così tanto in una piccola vincita.
All’inizio ho perso qualcosa, ma appena ho iniziato a perdere mi è venuta voglia di recuperare i soldi perduti e più perdevo, più, ormai contro la mia volontà, continuavo a giocare per rivincere almeno i soldi necessari a partire — e alla fine ho perso tutto. Anja, non ti supplico di avere compassione di me, è meglio che tu sia imparziale, ma temo terribilmente il tuo giudizio. Per me stesso non temo. Al contrario, ora, ora dopo una tale lezione mi sono fatto all’improvviso del tutto tranquillo per il mio avvenire. Ora mi attendono lavoro e fatica, lavoro e fatica, e mostrerò che cosa posso fare! Come si risolveranno le questioni future non lo so, ma Katkov (l’editore, ndr) ora non si rifiuterà di darmi il denaro. E tutto quello che succederà dopo dipenderà, penso, dal valore del mio lavoro. Se sarà buono, arriveranno anche i soldi. [...] Anja, vorrei solo non perdere il tuo amore. Nelle nostre già misere condizioni ho scialacquato in questo viaggio a Hombourg e ho perso più di 1000 franchi, 350 rubli! È un delitto!
A M.N. Katkov 20 ottobre 1870, Dresda
Egregio signore, stimatissimo Michail Nikifirovi?, oggi ho inviato alla redazione di Russkij vestnik soltanto la prima metà della prima parte del mio romanzo I demoni. Molto presto invierò anche la seconda metà della prima parte. Le parti saranno in tutto tre; ciascuna tra i 10 e i 12 fogli. D’ora in poi non ci saranno più rallentamenti. Se deciderete di stampare la mia opera a partire dal prossimo anno, mi pare essenziale informarVi in via preliminare, anche per sommi capi, su come andrà avanti il romanzo. Il famoso omicidio di Ivanov da parte di Ne?aev a Mosca sarà uno dei tanti importantissimi avvenimenti del mio racconto. Metto subito le mani avanti: non conoscevo e non conosco affatto né Ne?aev, né Ivanov, né le circostanze dell’omicidio, se non dai giornali. E se anche le sapessi, non copierei punto per punto. Mi limito a prendere il fatto accaduto. La mia fantasia può essere ben distante dalla realtà e il mio Pëtr Verchovenskij può non assomigliare affatto a Ne?aev; eppure mi sembra che la mia mente sia rimasta impressionata e abbia partorito con l’immaginazione un viso, un tipo adatto a una tale azione criminale. Indubbiamente aveva senso esibire una figura simile; ma da lei sola non mi sarei fatto abbindolare. Secondo me mostri di questo genere non sono degni della letteratura. Con mia grande sorpresa il personaggio che ne esce è per metà comico. [...] L’inizio del romanzo non mi veniva. L’ho ricominciato più volte. In effetti con questo romanzo è accaduta una cosa che non mi era mai successa prima: per intere settimane interrompevo il lavoro sull’inizio e scrivevo il finale. Temo, inoltre, che l’inizio avrebbe potuto essere un po’ più movimentato. In 5 fogli e mezzo di stampa (che sto inviando) faccio appena cenno all’intreccio. C’è da dire che l’intreccio, l’azione, si amplieranno e svilupperanno in maniera inaspettata. Sull’interesse per il seguito del romanzo posso garantire. Mi è sembrato sia meglio così come è ora. Non ci saranno soltanto figure oscure; ce ne saranno anche di luminose.
Ad A. F. Blagonravov, 19 dicembre 1880, San Pietroburgo
Egregio signor Aleksandr Fëdorovi?, Vi ringrazio per la Vostra lettera. Avete giustamente dedotto che io vedo la ragione del male nella mancanza di fede, e chi nega l’identità nazionale e popolare nega anche la fede. Da noi è proprio così, giacché la nostra identità si fonda sul cristianesimo. La parola: cristiano, le parole: Rus’ortodossa, sono le nostre fondamenta originarie. Da noi il russo che nega l’identità nazionale e popolare (e ce ne sono molti) è per forza un ateo o un indifferente. Viceversa: chiunque non creda o sia indifferente non può di certo comprendere né comprenderà mai il popolo russo o la sua identità. Ora la questione essenziale è: come far sì che la nostra intellighenzia lo accetti? Provate ad attaccare il discorso: vi mangeranno vivi o vi prenderanno per un traditore. Ma traditore di chi? Di loro, di qualcosa cioè che gira nell’aria e al quale è difficile anche dare un nome, perché essi stessi non sono in grado di inventarsi una definizione. Oppure traditori del popolo? No, è meglio stare col popolo; da esso soltanto ci si può aspettare qualcosa, non dall’intellighenzia russa, che rinnega il popolo e che non è nemmeno così intelligente. Ma una nuova intellighenzia sta rinascendo ed è in marcia, una che vuole essere con il popolo. E il primo indizio di un legame indissolubile con il popolo è il rispetto e l’amore verso il fatto che il popolo, nella sua interezza, ama e rispetta ciò che è sopra ogni cosa al mondo: il proprio Dio e la propria fede.
Questa nuova intellighenzia russa, sembrerebbe iniziare proprio ora ad alzare la testa. Proprio ora, infatti, pare sia richiesta per la causa comune ed essa stessa comincia a rendersene conto. Qui si adoperano in ogni modo per cancellarmi dalla faccia della terra, per il fatto che predico Dio e l’identità nazionale e popolare. Per quel capitolo dei Karamazov (sull’allucinazione) del quale Voi, un medico, siete rimasto così contento, erano già pronti a insultarmi e darmi del retrogrado e del mostro che si è spinto a scrivere «dei diavoli». Si immaginano ingenuamente che sia davvero tutto così e strepitano: «Ma come? Dostoevskij si è messo a scrivere del diavolo? Ah, che volgare, ah, che ritardato!». Però non ci sono riusciti, a quanto pare! Vi ringrazio, soprattutto in quanto dottore, per il messaggio sulla verosimiglianza della malattia psichica da me descritta in questa persona. Il parere di un esperto mi sosterrà, e sarete d’accordo con me che quest’uomo (Iv. Karamazov), date le circostanze, non poteva avere nessun’altra allucinazione se non quella. Più avanti, nel futuro Diario, voglio dare in prima persona una spiegazione critica di questo capitolo.Vogliate ora accettare i miei migliori e più sinceri saluti.