Corriere della Sera, 6 novembre 2020
Che fine ha fatto Akram Aylisli?
Che fine ha fatto Akram Aylisli che sei anni fa fu candidato al Nobel per la pace come una sorta di «Sakharov dei Balcani»? Hanno provato in tanti, da quando un mese fa è riesplosa la sanguinosa guerra nel Nagorno-Karabakh, a cercare un contatto col grande scrittore azero accusato dai suoi compatrioti nazionalisti d’aver «tradito» l’Azerbaigian narrando la decimazione di un secolo fa degli armeni nel suo villaggio d’origine, Aylis, in quella che oggi è la Repubblica autonoma di Naxçivan, l’exclave azera stretta tra l’Iran, l’Armenia e la Turchia.
Niente da fare. Vaghe rassicurazioni. Pare che… Forse… Probabilmente… L’ultima traccia, anzi, ha lasciato nuovi dubbi. Il 16 ottobre scorso infatti, dopo anni di silenzi, l’ottantatreenne e malandato autore di Sogni di pietra, pubblicato la prima volta in Occidente nel 2015 da Guerini, avrebbe dovuto partecipare, sia pure in remoto da Baku, la capitale azera dove vive come fosse in domicilio coatto, alla presentazione di Farewell, Aylis («Addio Aylis»), la trilogia uscita due anni fa negli Stati Uniti. Trilogia che comprende appunto, con Yemen e Un fantastico ingorgo, il bellissimo Stone Dreams tradotto dalla poetessa Katherine E. Young.
Era tutto pronto, all’Harriman Institute della Columbia University, che aveva organizzato l’evento con l’Institute for the Study of Human Rights e la Pen International, l’associazione di poets (poeti), essayists (saggisti) e novelists (romanzieri) fondata nel 1922 per proteggere gli scrittori di tutto il mondo. Titolo dell’evento: «Libri in fiamme: Akram Aylisli, letteratura e diritti umani nell’Azerbaigian di oggi». All’ultimo istante, stop: tutto annullato. Rinviato al 4 dicembre. C’è da sperarci?
Ma partiamo dall’inizio. Akram Najaf oglu Naibov noto come Akram Aylisli, riassume la Pen in un’appassionata difesa del 2019, è «un drammaturgo, romanziere e traduttore considerato per decenni uno degli scrittori più apprezzati dell’Azerbaigian. I suoi libri erano letti nelle scuole e nel 1998 aveva ricevuto il titolo ufficiale di Scrittore del Popolo, oltre a due dei più alti premi statali. Dal 2005 al 2010 era stato inoltre deputato al Parlamento azero».
Tutto precipitò nel 2012. Quando lo scrittore decise di tirar fuori dal cassetto dove stava da anni il manoscritto di quel romanzo, Sogni di pietra, dove affrontava il tormentato rapporto tra la sua anima azera e il senso di colpa per gli armeni uccisi negli eccidi del 1919 nel paese natale da cui aveva tratto il suo stesso nome, Aylis, che gli armeni chiamavano Verin Agulis e che fino alla pulizia etnica seguita al caos della rivoluzione d’Ottobre aveva una fortissima presenza armena, testimoniata tra l’altro dal monastero di San Tommaso fondato nel I secolo, pare, da san Bartolomeo apostolo.
A scuoterlo fu l’indignazione per il trionfale ritorno in patria (folla all’aeroporto, banda musicale, omaggi floreali, grazia presidenziale, nomina a «uomo dell’anno»...) d’un ufficiale azero, Ramil Safarov, condannato all’ergastolo in Ungheria per aver decapitato a colpi d’accetta, durante un master Nato, un pari grado armeno che dormiva. «Ero sotto choc – avrebbe raccontato —. Speravo di risparmiare alla mia gente l’immagine di un popolo di tagliagole». Scelse dunque di pubblicare Daş yuxular (Sogni di pietra) non in patria ma sulla rivista russa «Družba Narodov». Convinto, spiegherà al «New York Times», di poter così «conquistare un’audience un po’ più aperta…».
Macché. Appena se ne accorsero in Azerbaigian scoppiò il finimondo. Il presidente Ilham Aliyev accusò Aylisli di «deliberata distorsione della storia dell’Azerbaigian», gli revocò il titolo di Scrittore del Popolo, gli tolse la pensione concessa come autore illustre. La moglie e il figlio furono licenziati. Il National Drama Theatre di Baku cancellò i suoi lavori. Centinaia di manifestanti bruciarono in piazza a Gjandža, la seconda città azera, i suoi libri prima amatissimi. Il presidente del Consiglio del Caucaso islamico lo dichiarò «apostata». Alcuni deputati proposero di fargli un’analisi del Dna per accertare se fosse «geneticamente» armeno. E il leader del partito nazionalista Muasir Musavat offrì 13 mila dollari a chiunque gli avesse mozzato un orecchio.
«Se si accendesse almeno una candela per ogni armeno ucciso violentemente, la luce di queste candele sarebbe più viva di quella della luna», si legge in Sogni di pietra. Sperava di spingere tutti a una riflessione: non gli è mai stato perdonato. Tanto più che Heydar Aliyev, già capo del Kgb azero, pluridecorato all’Ordine di Lenin, ultimo rais comunista dal lontano 1969, primo presidente nazionalista dal ’91 e padre dell’attuale autocrate al potere, era nato lì, a Naxçivan, la capitale dell’omonima enclave azera, vicino all’antica Aylis. Insomma: per la famiglia al potere era un dito nell’occhio.
A fine marzo del 2016, qualche lettore ricorderà, Akram Aylisli fu bloccato all’aeroporto di Baku mentre stava per imbarcarsi verso Venezia, dov’era invitato al festival letterario «Incroci di civiltà». Dissero che aveva picchiato (lui: un ottantenne!) un giovane poliziotto. Arrestato, ricondotto a casa, ridotto a una sorta di domicilio coatto in attesa del processo, resta di lui il discorso che avrebbe voluto leggere nella città serenissima, storica patria di tanti senzapatria.
Discorso pubblicato da «Index on Censorship» (la prestigiosa rivista londinese per la difesa della libertà d’espressione su cui hanno scritto Arthur Miller, Nadine Gordimer, Samuel Beckett, Mario Vargas Llosa...) dove attaccava quelli che «si nascondono dietro le cosiddette visioni nazionali e se la cavano seminando semi di odio tra popoli e nazioni che non molto tempo fa vivevano insieme in pace». E se la prendeva con quanti «hanno l’audacia di proclamarsi gli unici portatori di verità e i veri e propri campioni della felicità nazionale». Per rivendicare, da azero: «Col mio libro ho salvato molti armeni dall’odio verso il mio popolo. Ho capito che in questo sanguinoso conflitto né gli armeni né noi dobbiamo incolpare le persone che non farebbero mai la guerra senza le interferenze della politica. E ho trovato conferma che mentre le nostre nazioni sono buone da sole, insieme sono magnifiche».
Un’apertura che sperava fosse raccolta, come nota nella prefazione a Farewell, Aylis il saggista americano Joshua Kucera, da scrittori armeni che riconoscessero a loro volta errori e crimini contro gli azeri. «Richiesta ignorata. L’Armenia non è più pronta a esaminare le proprie colpe di quanto lo sia l’Azerbaigian». Peggio: accolse Sogni di pietra solo come una prova delle proprie ragioni. Mollando lo scrittore azero nella sua solitudine col passare degli anni sempre più amara. Tanto più in un Paese scivolato nel 2019 al 168º posto (su 180) nella classifica mondiale sulla libertà di stampa di Reporters sans frontières.
Ecco, nell’appello firmato da Pen Russia e intellettuali americani ed europei perché il Nobel per la pace 2014 fosse dato a lui, con un richiamo a «uomini rari» quali Martin Luther King e Andrej Sakharov, capaci di «abbattere i muri che dividono le nazioni», c’era appunto la volontà di rompere quella solitudine: «Solo la voce di figure onorate può incoraggiare entrambe le nazioni a perdonarsi a vicenda per raggiungere infine un accordo. Il signor Aylisli ha avuto il coraggio di essere il primo a fare questo passo e tendere la mano...».