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 2020  novembre 06 Venerdì calendario

Su "Paure medievali" di Chiara Frugoni (Mulino)

Una gioia per gli occhi. È impossibile non pensare proprio così, davanti a un libro come questo di Chiara Frugoni, Epidemie, prodigi, fine del tempo. La vera gioia, certo, arriva dopo: dinanzi a queste pagine di grande respiro e di profonda intensità, che ci fanno dimenticare come la storia sia di per sé, e per sua natura, una disciplina problematica e permettono al lettore che sa e che vuole farlo di affrontare ardue tematiche, ma consentono a quello un po’ più pigro o ingenuo, o magari semplicemente che vuol godersi un bel racconto senza problemi, di abbandonarsi al racconto, come se stesse leggendo un romanzo o magari una fiaba. Un po’ paurosa, qua e là.
Chiara Frugoni è nata al mondo degli studi anzitutto perché nutrita delle midolla del leone: figlia di un padre, purtroppo immaturamente scomparso, ch’era davvero uno dei più grandi studiosi del secolo scorso: e da questo libro ci si rende conto come al familiarità con le fonti medievali sia derivata a Chiara non solo dal suo indiscutibilmente serissimo impegno, bensì anche dal contatto paterno e dalla fruizione della ricca biblioteca di famiglia. Ma la sua originaria formazione è stata quella della storica dell’arte e dell’iconologa: e questo “saper leggere le immagini” è uno degli insegnamenti più fascinosi e preziosi ch’ella ci abbia saputo donare. Se andate al capitolo La paura della fame e della miseria e considerate le scene della “distribuzione del pane” nel “pellegrinaio” dell’Ospedale di Santa Maria della Scala in Siena, affrescate da Domenico di Bartolo verso la metà del Quattrocento, la spiegazione offerta dal commento di Chiara in sei sole pagine, vi spalanca davanti in pochi rapidi tratti accompagnati da una manciata di nitide immagini tutte le sfumature della vita, delle gioie e delle durezze del medioevo. E così lungo tutto il libro il pane offerto con generosità (senz’ombra di companatico: prezioso nella sua essenzialità) e accettato con avidità e con gratitudine, le vesti di chi dona e di chi offre, le insegne di pellegrinaggio sugli abiti dei pellegrini, la carne nuda e magari tormentata dal freddo o dal calore dei poveri bambini malvestiti che sbocconcellano quella grazia di Dio. La povertà e la solidarietà, le ingiustizie del mondo e le mai saziate, fame e sete di giustizia, la dignità di una veste magari modesta ma pulita e dai bottoni in ordine e l’orrore degli stracci fetidi e infetti dagli strappi dei quali occhieggiano i minacciosi bubboni; e ancora gli orrori della guerra ch’è «giovane e fresca» solo per chi non l’ha mai fatta ( bellum dulce inexpertis) e quelli della fame che spinge fino a divorare brandelli di corpo umano, come almeno in certi momenti del nostro medioevo e prima e dopo, non è poi stato così eccezionale come si crederebbe. Un libro sulle paure medievali: quelle del diavolo e dell’inferno, senza dubbio, ma anche quelle più realisticamente concrete delle epidemie, delle carestie, delle malattie. A peste, fame et bello libera nos, Domine, come recitava l’antica giaculatoria. In fondo, e non a caso, appunto i cavalieri dell’Apocalisse, gli araldi di una “fine dei tempi” che più volte nell’età di mezzo e oltre è stata annunziata e della quale si è creduto di assistere ai prodromi. In cinque nitidi capitoli, densi di esempi, di fatti e di citazioni, si delineano le Grandi paure. Quella della fine del mondo anzitutto, col suo annesso della paura della morte e del senso del macabro che proprio il padre di Chiara, Arsenio Frugoni, studiò in tempi nei quali esso non era ancora giunto alla fama che avrebbe più tardi conseguito mettendo in luce l’importanza degli affreschi della “cappella dei disciplini” del paese di Clusone, vicino alla sua Brescia. Quindi quella della fame e della miseria, compagne abituali specie del mondo contadino. Poi quella del “diverso”, accompagnata dal pregiudizio nei confronti dell’altro (specie dell’ebreo e del saraceno). E infine quella delle malattie: prima la lebbra, infine la peste.
Storia significa dinamica, mutamento. Non si viveva e non si moriva, non si aveva paura e non si odiava sempre nello stesso modo, nel lungo medioevo. La paura del diverso ha uno spartiacque nell’età delle crociate, quando mutò di aspetto e di contesto. La paura della malattia contagiosa irruppe fra Tre e Quattrocento, quando la morte – in fondo non troppo temuta nei secoli precedenti, quando “sorella morte” poteva sembrare un riposo e un ristoro – si presentò con i tratti dell’epidemia crudele e inattesa, che uccide persone che ormai cominciavano ad assuefarsi a una vita da qualche tempo divenuta più ricca e agiata. Chi ha condotto una buona esistenza sopporta male l’idea del distacco: era quel che insegnavano i poeti come François Villon, qualche decennio fa ripreso da Fabrizio de André. E forse, una delle chiavi di lettura della nevrosi dilagante in questi nostri giorni di Covid–19 è appunto questa. Siamo dinanzi a un “nuovo medioevo”? Qualcuno lo ha proclamato. Senza dubbio, lungi da qualunque facile attualizzazione, la lettura di questo libro potrebb’essere buona e saggia compagna in eventuali futuri giorni di quarantena, se dovremo affrontarla di nuovo.