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 2020  novembre 06 Venerdì calendario

Intervista alla designer Olimpia Zagnoli

«Io penso positivo, perché son vivo, perché son vivo...». Risuona Jovanotti nelle orecchie mentre si sfogliano le illustrazioni dal tratto pop firmate Olimpia Zagnoli. Trentasei anni, di Reggio Emilia, milanese d’azione, studi all’Istituto Europeo di Design e un curriculum internazionale di collaborazioni editoriali in primis con The New Yorker e incursioni nel fashion system, lei pensa e disegna positivo mentre schizza silhouette, pattern e tessuti per Prada, Marella e Christian Dior.
Che l’arte e la moda fossero destinati a incontrarsi su un foglio bianco era quasi scritto per Olimpia Zagnoli, cresciuta in una famiglia di artisti e innamorata sin da bambina dell’andar per mercerie con la nonna, rovistando tra scatole di bottoni e scampoli di tessuto. E poi la passione per Sonia Delaunay, artista d’avanguardia degli anni Venti che cavalcò trasversalmente le discipline artistiche, moda compresa. C’è tutto questo e anche di più nei lavori su carta e tessuto della giovane illustratrice: immagini sinuose, illusioni ottiche e contrasti cromatici in una sorta di caleidoscopio, come sottolinea anche il titolo della mostra Caleidoscopica. Il mondo illustrato di Olimpia Zagnoli, a cura di Melania Gazzotti pronta a partire, Covid permettendo, alla Fondazione Palazzo Magnani di Reggio Emilia. Volti e silhouette accessoriati di tutto punto ispirati a persone reali, scovate passeggiando in strada come un vero cool-hunter.
Osserva molto come si vestono le persone per tratteggiare le sue figurine umane?
«Sicuramente osservare la gente è una delle mie attività preferite, seduta al tavolino di un bar mentre faccio colazione o mentre passeggio verso il mio studio di mattina. Mi piace soffermarmi sui dettagli, domandarmi il perché di certe scelte stilistiche, apprezzare alcuni vezzi. Notare come alcune signore anziane hanno scelto di vestirsi di un solo colore: osservare ad esempio tutte le sfumature dei viola che indossano o dei verde menta e dei rosa».
Cosa la ispira per le sue illustrazioni?
«Mi attrae molto il mix di culture e quindi di scelte influenzate dalle diverse provenienze geografiche. Mi dispiace altre volte vedere abbigliamenti troppo conformi, dovuti magari alla paura di osare con il colore, con i pattern. Scegliendo tinte non troppo riconoscibili come il grigio, il nero e marrone si rimane anonimi. Sentirsi anche in imbarazzo per via di un colore vivace, invece, può essere un esercizio importante per affermare la personalità».
Su quali accessori punta? 
«Preferisco le borse perché sono quasi sempre di brutte forme e colori, quindi una sfida. Ma anche i cappelli perché risultano sempre un po’ fuori moda e apprezzo chi ha il coraggio e la voglia di sfoggiarli. Altro dettaglio, i foulard, quando si intravede un guizzo di colore sotto un cappotto».
Oltre a illustrarli lei è arrivata anche a creare degli abiti, come si è trovata nei panni di fashion designer?
«La collaborazione più duratura è stata con l’azienda Marella che mi ha invitata tra il 2017 e il 2018 a creare tre capsule collection. Ho conosciuto il lavoro di un’azienda di moda dall’interno, creando relazioni con l’ufficio stile come con il marketing. Lavorando gomito a gomito abbiamo definito i pattern che io ho creato per poi essere stampati sui tessuti delle collezioni. Nel 2018 ho realizzato per Prada una serie di illustrazioni su t-shirt, felpe, scarpe e borse ispirate ai poster di villeggiatura in stile Art-Nouveau: dei paesaggi che riprendono quell’idea un po’ vintage in chiave contemporanea».
Come ha tradotto attraverso le sue illustrazioni, la collezione per questo autunno/inverno disegnata da Maria Grazia Chiuri per Dior?
«Ho trovato con lei una decina di soggetti forti della collezione che è ispirata ai suoi ricordi degli anni 70. C’è il basco nero, l’abito rosso senza spalline, ci sono le fantasie di quadri e le righe. Ho deciso di rispolverare una cifra stilistica che mi appartiene, ispirata al pennello, il tratto più libero e spontaneo che in un certo senso strizza l’occhio alla tradizione dell’illustrazione di moda di Christian Dior, per dare poi una comunicazione visiva contemporanea».
Come l’abito, anche le sue illustrazioni hanno uno stile: come definisce il suo?
«Colorato con un tratto di ironia sempre presente anche quando si tratta di temi piuttosto seri. Il potere dell’illustrazione è quello di non rappresentare fedelmente la realtà ma di piegarla e deformarla a proprio piacimento. L’aspetto cromatico poi è importantissimo, a volte lavoro più sulla palette che sulla definizione delle forme. Per me il colore non è solo decorazione, scelta estetica ma un modo per trasmettere una certa atmosfera al lavoro».
Non a caso Caleidoscopica è il titolo della mostra che le dedicherà Reggio Emilia, pandemia permettendo.
«È una sferzata di creatività, perché anche noi artisti siamo chiamati a riflettere e a interpretare la situazione. Ci occupiamo di una disciplina che non curerà dal virus ma con parole, suoni e immagini possiamo stimolare un pensiero positivo».