La Stampa, 5 novembre 2020
Reportage da Vienna, dove l’integrazione è fallita
Sotto le sale da concerto, i palchi di teatro e i lampadari di cristallo, scorre la Vienna carsica dell’integrazione mal riuscita, delle comunità provenienti dalla ex Jugoslavia e dal Nord Caucaso, che faticano a trovare una collocazione ai piani alti della società austriaca e scontano una distanza che neanche la conquista della cittadinanza riesce a neutralizzare del tutto. Hanno i loro quartieri, i loro medici, le loro scuole, i loro mercati. Ad Hannover Markt, nel XX distretto, ci sono i ceceni, a Favoriten, X distretto, abitano molti gruppi di origini balcaniche, i turchi si incontrano da Kent, il ristorante al centro del Brunnen Markt, che adesso fa solo «take away» per via del lockdown.
Il giovane attentatore che ha gettato il panico nel centro di Vienna la sera del 2 novembre veniva da una famiglia di origine macedone, ben integrata come la maggior parte delle famiglie provenienti dallo sgretolamento della ex Jugoslavia. Addirittura sono un bacino elettorale per la destra, i serbi in particolare, ma secondo le analisi del ministero degli Interni austriaco la tendenza tra le seconde generazioni a radicalizzarsi nell’estremismo islamico è in aumento, ed era stato lo stesso ministro Nehammer, dopo l’assassinio di Samuel Paty a Parigi, ad aver sollevato «la questione cecena» come un problema nazionale: «La maggior parte dei jihadisti che sono arrivati in Austria per unirsi a organizzazioni terroristiche basate all’estero, sono ceceni», aveva detto.
«La scelta di Vienna come bersaglio purtroppo non mi ha sorpreso - dice Peter Neumann, esperto di terrorismo e in passato coinvolto dal governo austriaco proprio per lo studio dei programmi di de-radicalizzazione dei giovani estremisti -. In rapporto al numero di abitanti, la scena jihadista austriaca è da anni più forte di quella tedesca, proprio per la maggiore presenza di gruppi provenienti dai Balcani e dalla Cecenia, particolarmente pericolosi e pronti ad attivarsi con rapidità».
Ufficialmente in Austria sono registrati circa mezzo milione di immigrati di origine balcanica, in pratica quasi un quarto della popolazione ha una storia di migrazione alle spalle. Più difficile stimare il numero esatto di ceceni - si parla di circa 35 mila - arrivati dieci anni e mezzo fa come rifugiati e in molti casi traumatizzati da anni di guerra e dalla brutale «normalisatsia» di Vladimir Putin. «Molti di loro si trovano sotto osservazione o in carcere - dice ancora Neumann - ma sta per scattare un turn-over generazionale, che prevede la loro messa in libertà, e purtroppo abbiamo visto in questo caso che non sempre i programmi di reinserimento funzionano».
L’Austria è un grande hub - Vienna e Graz in particolare - dove transitano persone, ma anche soldi e armi. Il ministro Nehammer ha precisato che Kujtim Fejzulai aveva cercato di procurarsi armi in Slovacchia l’estate scorsa: «I servizi segreti slovacchi ci avevano informato, ma evidentemente qualcosa è andato storto nella comunicazione» (con l’occasione Nehammer ha accusato il suo predecessore, Herbert Kickl, dell’Fpö, «di aver gravemente danneggiato, per non dire distrutto, il Bvt austriaco»).
Dalle rimesse della diaspora austriaca corre anche un fiume di denaro che va in molti casi a finanziare campi di addestramento in Bosnia, e di nuovo, questo è possibile a causa delle economie chiuse che le singole comunità alimentano nei loro ristoranti, nei loro mercati, nei loro circuiti. «Bisogna chiedersi anche perché questo accade», dice Oizemir, un giovane turco che lavora al Brunnen Markt e sostiene che i turchi stavolta non c’entrano nulla, «hanno persino aiutato un poliziotto austriaco a raggiungere l’ambulanza». La storia dei due giovani eroi turchi era su tutti i giornali, persino il presidente Erdogan li ha chiamati per complimentarsi del loro atto di coraggio. «Avrebbe dovuto chiamarli il cancelliere Kurz prima di Erdogan, non crede?». Anche chi lavora e può dirsi integrato, qui a Vienna, soffre della sindrome «degli occhi azzurri»: «Lo senti quando entri in un locale, o in un ufficio, ti guardano gli occhi, e se non ce li hai azzurri non sei uno di loro». E puoi lavorare quanto ti pare, «resti sempre uno che non ha gli occhi azzurri».