Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2020  novembre 05 Giovedì calendario

QQAN20 1QQAN40 La storia segreta di Goffredo Parise

QQAN20
1QQAN40

«Ricordo quel giorno. Dopo 15 anni mi disse: “Mi è successa una cosa, mi sono innamorato di una ragazza”. Io gli risposi: “Se sei innamorato devi andartene, non voglio che stai con me se ami un’altra”. E se ne andò. Restai sola, con una sofferenza atroce… Fuori cominciò a nevicare. Mi sdraiai a terra, pensai che volevo restare lì e diventare un pezzo di ghiaccio». Così Giosetta Fioroni ha riassunto il momento in cui Goffredo Parise le confessò d’aver perso la testa per una donna di Salgareda, il borgo dell’Alto Trevigiano dove aveva comprato una casupola sulla golena del Piave. La pittrice romana, che fino ad allora lui aveva definito «la sola vera compagna della mia vita», non chiese nomi. Sapeva che a prendersi il cuore di Goffredo era Omaira Rorato, figlia di «Bepi nero», fabbro del paese. E sapeva che la storia era cominciata da tempo. Forse addirittura, come infatuazione, da quando il romanziere (malato d’inquietudine e di molto altro) conobbe la diciottenne nella bottega del padre, al quale si era rivolto per recuperare dei chiavistelli arrugginiti trovati nel rudere in restauro.
Uno scambio di sfrontatezze segna il primo incontro tra i due. Lui si presenta con un borioso «io sono lo scrittore Goffredo Parise». Lei replica con un «e chissenefrega…». Risposta insolente, che fa però sentire le farfalle nello stomaco al dotòr, come in paese lo chiamano, mentre Omaira è la selvàdega, perché non ha soggezioni o sovrastrutture mentali ed è schietta fino a sconfinare nello scorbutico. Ma non è solo questo a incuriosirlo, della ragazza che studia ragioneria e ha 25 anni meno di lui. C’è molto altro che lo intriga. Per esempio la fresca vitalità di chi ha appena lasciato l’adolescenza. È bruna di capelli, con una frangetta sulla fronte come unica civetteria. Ed è formosa, con zigomi alti e un profilo che gli rammenta quello «da cammeo» di Mariola, sua fragile moglie in una breve stagione. Insomma: avverte che quell’insieme – spirito e fisico – è in armonia con il paesaggio umano del «Veneto barbaro di muschi e nebbie» dove ha fissato la propria «patria» e dove si rifugia, annoiato dei circuiti letterari e spossato da un lungo nomadismo.
Per un po’ Parise segue a distanza la crescita di Omaira. E ogni volta che sono insieme le «insegna la vita», in un legame che non è solo quello di guida intellettuale. Infatti ne parla come di una «figlia adoptive». Le legge gli elzeviri che detta al «Corriere». E condivide con lei le sue passioni: le passeggiate sulle rive del fiume, il vino e il cibo semplice, certi libri, la compagnia di chi va a trovarlo, l’odore dei pontili d’estate, tra il salso e lo iodio, a Venezia.
Il rapporto cambia dopo che l’ha vista andare sposa con un giovane di Ponte di Piave, il quale la lascia però vedova nel giro di appena sei mesi. Un anno dopo, il 22 aprile 1976, Goffredo annota nel diario: «O. mi piace molto, ha un bel temperamento. Selvatico e incolto ma bello». Insomma: è un autore conteso dagli editori, amico di Moravia, Gadda, Calvino, Fellini e Truman Capote, e che a New York ha ballato con Marilyn Monroe, eppure i suoi pensieri sono invasi da questa ragazza di campagna.
La svolta è vicina. E a ricostruirla oggi è Tommaso Tommaseo Ponzetta, con un racconto (Omaira, un amore di Goffredo Parise, postfazione di Ilaria Crotti, Piazza editore) concepito per «rendere giustizia» a questa donna che le biografie di Parise liquidano in poche righe. Tommaseo, chirurgo-umanista discendente dalla casata dalmata che ha avuto nel patriota e letterato Niccolò una figura eminente, ha titolo per occuparsi dell’universo parisiano. Non a caso è stato intimo dello scrittore, tanto che la voce Famiglia dei Sillabari è esplicitamente dedicata a suo padre, a lui e ai suoi fratelli. Di Omaira ha conquistato la fiducia, raccogliendone le confidenze e usandole con sfumature delicate.
Erano divenuti insostituibili l’uno all’altra, anche se Giosetta non era nel frattempo sparita. Diciamo che le due storie continuavano parallele (tanto è vero che Parise farà un viaggio a Parigi accompagnato da entrambe). Come lascia intendere il racconto di Tommaseo, Omaira è l’antidoto alle malinconie di Goffredo nelle nebbiose serate nella casetta rossa sul Piave. E Goffredo, che continua a «maltrattare» le sue malattie, colui che emanciperà Omaira da ogni insicurezza, spiegandole che «la vera cultura non è aver letto molti libri o avere una laurea, è conoscere gli uomini e le cose che ci offre la vita». Le indirizzerà più di 200 lettere, di cui appena una dozzina sono note. E dal letto dell’ospedale dove lo scrittore morirà ad appena 57 anni, detterà a lei e a Giosetta, che lo assistono assieme, le trenta poesie che sono il suo ultimo lascito.
Omaira non ha mai rivelato nulla di quegli anni. Ha solo detto, ma eloquentemente: «Di Goffredo non ero la figlioccia né l’amica e nemmeno la badante. La nostra era una vera storia d’amore».