Il Messaggero, 5 novembre 2020
QQAN93 Il mito dell’Everest raccontato da Stefano Ardito
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L’Everest c’è sempre stato, ma in realtà è nato cent’anni fa. Il suo mito si consacra con la prima spedizione del 1921 e quel telegramma del Dalai Lama che apre agli inglesi i confini della Montagna Sacra, quella che i tibetani chiamano Madre dell’universo e i nepalesi Dio del cielo. Stefano Ardito, uno dei maggiori esperti internazionali di natura, viaggi e montagna è forse l’unico in Italia ad essersi accorto di questo anniversario pubblicando Everest. Una storia lunga 100 anni, una miniera documentata di eventi, avventura, biografie che dimostrano che l’Everest non è solo questione di scalate e spedizioni, ma di un vero mito che si intreccia al destino tragico del Tibet.
Posso provocare dicendo che l’Everest non è una montagna, ma è un’ossessione, un archetipo, una metafora collocata alle radici dell’immaginario collettivo globale?
«Certamente. L’Everest è un sogno universale, una montagna intorno alla quale si sono svolte storie importanti intrecciate con la storia e la geopolitica degli ultimi cento anni. Fa parte del mito di queste montagne dell’Himalaya che sono entrate perfino nella nostra vita quotidiana come i bar e pub che portano il nome del K2. Adesso l’Everest è diventato un grande sogno abbordabile per ricchi, ma quando ho intervistato John Hunt, il capo della prima spedizione post-bellica del 1953, lui mi disse che essere celebrati da un milione di persone a Londra e a Delhi, ma soprattutto da mezzo milione al Cairo, fu il segno che la conquista dell’Everest era stata una grande conquista di pace di cui il mondo dopo la guerra aveva estremamente bisogno».
Restando in questo contesto geopolitico quale ruolo ha avuto il Dalai Lama nello sdoganare il Dio del cielo agli esploratori?
«Fin dal 1904 gli inglesi avevano instaurato una sorta di protettorato sul Tibet. Nel maggio del 1920 Sir Francis Younghusband, presidente della Royal Geographical Society, decide di dedicarsi all’impresa dell’Everest e nel dicembre arriva il telegramma del Dalai Lama che autorizza solo gli inglesi a partire agli inizi del ’21. Così sono stati loro i primi a scalarlo e ritengo che vedere il Tibet così intrecciano al potere britannico abbia spinto i cinesi a invaderlo negli anni cinquanta. La geopolitica ha condizionato tutte le spedizioni perché, fino alla conquista cinese, si snodavano tutte dal versante tibetano ed erano solo spedizioni inglesi, visto il rapporto privilegiato dell’Impero Britannico col Tibet. Dopo l’invasione cinese del Tibet, il re del Nepal apre i confini e cominciano le spedizioni da sud tra cui quello del 1953 con Edmund Hillary e Tenzing Norgay».
E con quella tante prime spedizioni e una vera gara per ottenere un primato nuovo...
«La lista in genere è la seguente: la prima salita assoluta, gli altri itinerari nuovi, la prima invernale (compiuta nel 1980 da una spedizione polacca), la prima discesa in sci dalla vetta e, nel 1978, Reinhold Messner e Peter Habeler compiono la prima salita senza l’ausilio di ossigeno».
E poi ancora Messner la solitaria due anni dopo...
«Quando i cinesi danno per la prima volta il permesso nell’agosto del 1980 la prima solitaria dell’Everest, per il versante Nord, sempre senza ossigeno».
Tutte sfide coraggiose. Molti ci hanno rimesso la vita, molti corpi non si trovano ancora oggi, come quello di Andrew Irvine morto con il suo compagno di scalata George Mallory nel 1924. L’Everest non sarà una montagna maledetta, ma è molto pericolosa
«Erano scalatori eroici, con un equipaggiamento povero, maglioni di lana come quelli che si usavano per andare sulle Alpi, respiratori che pesavano 14 chili, insomma dei catafalchi giganteschi. È interessante notare che le spedizioni delle montagne di 8000 metri sono state rese possibili dai progressi tecnici della seconda guerra mondiale, quando giacche di piumino, vestiario termico, bombole di ossigeno sono state sviluppate dagli americani e inglesi per i loro equipaggi militari. Le guerre portano con sé da sempre questi progressi. Del resto il primo manico è stato fatto di sicuro per dare una legnata a qualcuno! Non dico che gli alpinisti precedenti fossero meno bravi, ma non avevano le attrezzature sufficienti».
E invece è vero che oggi l’Everest è diventato un sogno a portata di tutti, o meglio di molti ricchi facoltosi?
«Ho fatto delle valutazioni sul business, sui grandi sherpa e le grandi guide straniere. Ci sono persone che sganciano 70-80 mila dollari per scalare la montagna. Un business creato da occidentali, anche da australiani e neozelandesi che portavano in vetta clienti in maggioranza americani ed europei. Da qualche anno il business è in mano a sherpa e imprenditori nepalesi e anche il target si è totalmente globalizzato includendo in larga parte indiani e cinesi. L’emergenza Coronavirus ha distrutto questo comparto. Ci sono 200 mila persone senza lavoro e nel turismo in Nepal l’Everest conta tanto quanto il buddismo e i templi. Direi che in Nepal l’archetipo è diventato un gadget immortalato in libri, magliette, video. Un prodotto turistico ma con tanto simbolo e storia. Molti alpinisti affermano che l’Everest è diventato un luogo per clienti paganti. Io non mi scandalizzo dal momento che ogni anno migliaia di persone fanno ascensioni guidate sul Monte Bianco e nessuno lo considera un crimine».
Questo turismo non confermerebbe invece, con buona pace degli alpinisti, che l’Everest è un archetipo universale?
«Reinhold Messner, che è il più intelligente di tutti dice che non è più alpinismo, ma è turismo disagiato ad alta quota. Ma se si pensano già i voli nello spazio per tutti, perché stupirsi che lo sia diventata la vetta della Montagna Sacra?