la Repubblica, 5 novembre 2020
Il caso Schwazer
Altezza 1 metro e 87 centimetri, peso 71 chilogrammi, pulsazioni cardiache a riposo 34 al minuto, marciatore, italiano, nato il 26 dicembre 1984, medaglia d’oro alle Olimpiadi di Pechino nel 2008 e squalificato per doping alla vigilia di quelle di Londra nel 2012, Alex Schwazer prima ha conosciuto la gloria e poi ha conosciuto il fango.
Quando stava per risorgere – e dimostrare a tutti che si poteva vincere anche senza le “bombe” – gli hanno teso una trappola per insudiciarlo e cacciarlo per sempre da un mondo dove il silenzio è d’oro. Prove e provette manipolate, falsi testimoni, avvertimenti, rappresaglie, ritrattazioni clamorose, complici indifferenze, processi farsa e una giustizia sportiva fuorilegge. Così Alex Schwazer è stato trascinato nel gorgo di un’altra squalifica, arrivata nell’agosto del 2016 a Rio de Janeiro a Giochi Olimpici già iniziati.
La sua colpa: avere parlato, avere spezzato il muro di omertà che regna nell’atletica dei record e delle medaglie. Il suo caso ce l’hanno spacciato come controverso, giallo internazionale, come mistero inestricabile, spy story. In realtà, quella che si è sviluppata intorno ad Alex Schwazer e al suo allenatore Sandro Donati è una tipica trama di mafia. Mandanti i “signori del doping”.
Alessandro Donati e Alex Schwazer durante un allenamento a Vipiteno, luglio 2016 L’ultima volta che abbiamo visto Alex inseguiva se stesso sugli argini dell’Isarco gonfio di piogge per un temporale. Come ogni mattina era sceso dal suo bellissimo paese, Calice di Racines, fino alla periferia di quella che noi italiani in Alto Adige chiamiamo Vipiteno e gli austriaci Sterzing. Lì, come sempre, aveva trovato Sandro Donati che lo rincorreva in bicicletta e con il cronometro lungo la pista che costeggia il fiume. Era una mattina di luglio del 2016.
Alex aveva già in mente Rio. Un’altra Olimpiade, un altro sogno, un altro oro. Era in perfetta forma per una nuova sfida dopo quattro anni di tormento. Ma in Brasile Alex non ha mai marciato, l’hanno fucilato alla schiena appena un attimo prima. Sugli argini del fiume Isarco lui ce l’aveva detto: “È cominciato tutto in quell’aula e non me l’hanno mai perdonato. Tutto ha avuto inizio quando ho testimoniato contro di loro”. La sporca storia che ha fatto rotolare Alex Schwazer in un incubo ha un luogo preciso e una data precisa: Tribunale di Bolzano, 15 dicembre 2015. L’antefatto (che poi è il fatto) Quel giorno, davanti ai giudici dove è sotto inchiesta per doping, Alex Schwazer confessa di avere assunto eritropoietina e racconta ai carabinieri del Ros tutto il marcio che ha avuto intorno. Squalificato fino al 2016 dalla giustizia sportiva e patteggiata una pena a 9 mesi di reclusione, Alex fa tremare la Cupola dell’atletica.
Rivela che ha assunto Epo già dal febbraio del 2012 e punta il dito contro due dirigenti italiani della Federazione: “Sapevano tutto”.
Medaglia di bronzo ai Mondiali di atletica. Helsinki, 12 agosto 2005 Qualche mese prima Alex aveva consegnato ai magistrati di Bolzano una memoria di cinque pagine e in aula, il 15 dicembre, rilancia le accuse. Sul banco degli imputati ci sono Giuseppe Fischetto, responsabile dei controlli antidoping della Federazione mondiale di atletica e sanitario di quella italiana e Pierluigi Fiorella, medico della Nazionale e anche personale di Alex. L’atleta sostiene che Fischetto era a conoscenza dei suoi valori anomali ma non li segnalò alle autorità di controllo. Ricorda anche di un incontro alle porte di Parma dove aveva informato nei particolari pure Fiorella.
Il procuratore capo della Repubblica di Bolzano Guido Rispoli e il suo sostituto Giancarlo Bramante, dopo le prime ammissioni di Alex, allargano l’inchiesta e scoperchiano uno scandalo che ha come protagonisti gli atleti russi. L’indagine di Bolzano s’incrocia con un’altra avviata in Germania sul “doping di Stato” – che ha coinvolto, e solo dal 2011 al 2015, quasi mille atleti dell’ex Unione Sovietica – e con un’altra inchiesta in Francia dove l’ex presidente della Federazione Internazionale di Atletica Lamine Diack (insieme a uno dei suoi quindici figli, Papa Massata, e al capo dell’Antidoping Gabriel Dollé) è sotto accusa per corruzione. Hanno preso soldi per coprire proprio il doping di Mosca. Senza saperlo Alex Schwazer entra nel “gioco grande”.
I dirigenti
Una strana coppia che fa paura La testimonianza di Alex a Bolzano è come un terremoto. Prima scatena il panico, poi la vendetta. Un bersaglio è lui, l’altro il suo nuovo allenatore Sandro Donati. Maestro dello sport famoso in tutto il mondo, scienziato dell’allenamento, noto per le sue decennali battaglie contro il doping, autore di libri di successo, Donati – che è stato consulente della Procura di Bolzano nell’inchiesta sull’Epo dei russi – all’inizio di quel 2015 viene contattato da Alex Schwazer con un WhatsApp.
L’atleta sa che se vuole tornare a gareggiare ha bisogno di credibilità. Chi gliela può offrire se non il numero 1 degli allenatori che ha sacrificato tutta una vita contro il doping, pagando con l’isolamento e una permanente ostilità dei padrini dello Sport?
Alex s’incontra a Roma con Donati, nella sua casa davanti al Parco delle Valli che si affaccia sull’Aniene, dove c’è una piccola pista d’atletica. Parlano a lungo, ore e ore. Sandro Donati gli dice: “Io sono pronto ad allenarti ma devi raccontarmi tutto”. Così Alex decide di fare il grande salto. E giorno dopo giorno gli confida quello che ha fatto, già prima delle Olimpiadi di Londra: “Anche a Lugano mi sono dopato... nel mese di febbraio del 2012”. E poi fa i nomi di Fischetto e Fiorella. Alex, a Bolzano, ripete tutto ai carabinieri del Ros e ai procuratori che già stanno indagando sul doping dei russi e sull’Epo di Alex.
Un piccolo passo indietro per raccontare un retroscena che non è poi così marginale. Parla Sandro Donati: “La squalifica di Alex fu causata da me, perché fui io ad indicare all’Agenzia mondiale antidoping una serie di sospetti su di lui. Alcuni anni più tardi Alex decise di rivolgersi proprio alla persona che lo aveva messo nei guai e mi scelse come tecnico”. Il primo di aprile del 2015 Donati diventa ufficialmente l’allenatore di Alex Schwazer. “Il prof”, lo chiama il marciatore. Cosa vogliono Schwazer e il “prof”? Una medaglia pulita alle Olimpiadi di Rio del 2016.
Alex si trasferisce a Roma e prende casa in un piccolo albergo a cento metri dall’abitazione di Donati, al Sacco Pastore sulla Nomentana. Ogni giorno si allena sulla pista del Parco delle Valli, il quartiere lo “adotta”. Fa amicizia con i bambini, i commercianti, con la farmacista. La squalifica è quasi alla fine, Alex è pronto per tornare alle gare ufficiali.
Ma nell’ombra si diffondono i primi veleni, voci che si fanno sempre più insidiose, cattive. Dentro l’ambiente dell’atletica sono in molti a non volere Schwazer ancora fra i piedi. Ha “parlato” e deve pagare. Qualcuno comincia a muoversi. Perché intanto, quei due, il responsabile dei controlli antidoping della Federazione mondiale di atletica Fischetto e il medico della nazionale Fiorella, sono rinviati a giudizio dai magistrati di Bolzano per favoreggiamento al doping. Decisiva l’accusa di Alex.
Alla fine del settembre 2015 il marciatore va a Tagliacozzo, in Abruzzo, per un test sui 10 mila metri. Alex, che è ancora squalificato sino all’’aprile 2016, è costretto a correre su una pista non omologata. Tempo clamoroso per una distanza che non è la sua: 38’02"52, appena quattro secondi dal primato mondiale. Il test di Tagliacozzo galvanizza Schwazer e fa sperare alla grande “il prof” Sandro Donati. Ma altri hanno già pianificato l’agguato. La prima parte dell’intervista all’allenatore Sandro Donati. “Scoprii come era stato lasciato solo durante una grave depressione e il mio approccio iniziò a mutare. Mi chiedevo se senza doping potesse ancora essere forte e col tempo mi accorsi che lo era”. Intervista di Fabio Tonacci, video di Francesco Giovannetti
"Operazione Schwazer" La mattina del 15 dicembre 2015 il marciatore depone in aula e il pomeriggio la Iaaf (la Federazione Internazionale di Atletica leggera) ordina un controllo antidoping per Alex. Parte in quel momento quella che si annuncia subito come un’"operazione” di distruzione dell’immagine dell’atleta italiano e contemporaneamente del suo allenatore.
Sono passate poche ore dalla sua testimonianza contro i medici Fischetto e Fiorella e, come dice Donati, “con inusitato anticipo” la Federazione d’atletica incarica la ditta privata GQS di Stoccarda di disporre per il 1 gennaio 2016 un esame sul sangue e sulle urine di Schwazer.
Medaglia di bronzo ai Mondiali di atletica. Osaka, 1 settembre 2007 La procedura è assai anomala. Non ci sono precedenti di controlli per Natale o Capodanno. E non ci sono precedenti di verifiche antidoping “programmate” con tanto tempo – due settimane – d’anticipo. Normalmente i giorni di preavviso sono due, al massimo tre. E poi il primo dell’anno i laboratori dove custodire le urine sono chiusi, in un giorno di festa è difficile trovare impiegati che aprono e chiudono gli uffici. Ma c’è altro.
Nel verbale antidoping compilato dall’ispettore Dennis Jenkel destinato al laboratorio di Colonia, è riportato anche il nome del paese di residenza dell’atleta: “Ratsching”, ossia Racines. Un’altra procedura decisamente sospetta: c’è un solo atleta famoso a Racines ed è Alex Schwazer. Scrivere il nome del paese è come scrivere quello di Alex, in violazione al regolamento che esige l’anonimato nelle carte destinate ai laboratori.
L’ispettore Jenkel e un suo collaboratore passano la notte che separa il 2015 dal 2016 in un hotel di Innsbruck. A Capodanno si alzano intorno alle 6, varcano la frontiera fra l’Austria e l’Italia alle 6.45, alle 7.30 bussano alla porta della casa di Schwazer a Calice di Racines. Il giorno prima Alex si impegna in un lungo allenamento: 40 chilometri. Poi, di sera, una cena con gli amici e mezzo bicchiere di vino. E poi ancora a nanna. Lo svegliano la mattina dopo Jenkel e quell’altro.
Bussano alla porta di casa, lui apre. Gli chiedono di fare la pipì. Alex li saluta e fa. La sua urina viene riversata in due provette. Da quel momento tutto è nebuloso, oscuro.
Quindici ore di “vuoto" Mancano 217 giorni alle Olimpiadi di Rio. E comincia il misterioso viaggio della pipì di Alex. L’ispettore Jenkel ripassa la frontiera con l’Austria e va verso la Germania, destinazione Stoccarda. Posteggia la sua auto al civico 10 dell’Eichwiesenring, la sede della GQS, la Global Quality Sports, il service che la Federazione atletica mondiale utilizza per alcuni controlli antidoping e dove Jenkel deve consegnare le provette con l’urina.
L’ispettore arriva a Stoccarda alle 3 del pomeriggio del 1 gennaio 2016. Da quel momento e fino alle 6 del mattino del 2 gennaio – quando le provette ripartono in automobile per raggiungere il laboratorio della Wada (l’Agenzia mondiale antidoping) di Colonia – non si sa cosa accade negli uffici della società di Stoccarda. C’è un “vuoto” di 15 ore.
In un primo momento Jenkel riporta sul suo verbale di avere consegnato personalmente, a mano – la mattina del 2 gennaio – i campioni di sangue e di urine di Schwazer al laboratorio di Colonia. Ma non è vero. Sarà lo stesso ispettore – però soltanto otto mesi dopo, prima in collegamento telefonico con il Tribunale Internazionale dello Sport riunito a Rio, poi con una dichiarazione scritta – a ritrattare. Modifica la prima versione probabilmente per paura e dice che ha lasciato le provette nelle mani del padre del proprietario della GQS – non la mattina del 2 gennaio – ma alle 15 dell’1 gennaio.
Jenkel precedentemente aveva dichiarato il falso: per 15 ore aveva abbandonato la sorveglianza delle urine. È un altro buco nero: l’interruzione e la compromissione della “catena di custodia”.
Medaglia d’oro alle Olimpiadi di Pechino. 22 agosto 2008 Tutti i passaggi – dal prelievo del campione alla consegna al laboratorio di Colonia – sono infatti accompagnati da un verbale che garantisce il campione sempre sotto controllo. Proprio ciò che non è avvenuto. Quel palazzo di Stoccarda è un porto di mare. Senza sorveglianza, senza vigilantes.
Le chiavi degli uffici della società GQS sull’Eichwiesenring sono in possesso di sei dipendenti. Probabilmente anche sette. Visto che Wolfang Jablonski – il padre di Michael, che è il proprietario della GQS – va a prendere le provette alle 6 del mattino del 2 gennaio per portarle al laboratorio dell’Agenzia mondiale antidoping di Colonia. Le consegnerà alle 10.20 a tale Kretschmer, il portiere dello stabile dove ha sede il laboratorio della Wada. Chi, in quelle 15 ore, ha avuto accesso alle urine incustodite di Alex? Medaglia d’oro agli Europei di atletica. Barcellona, 27 luglio 2010
Gli attacchi, i “consigli” e la qualifica per i Giochi La squalifica per l’Epo alla vigilia dei Giochi di Londra è finita. A fine aprile 2016 Alex Schwazer può tornare alle gare, dopo 3 anni e 9 mesi, sotto la sapiente guida di Sandro Donati.L’8 maggio c’è la 50 chilometri di Roma e Alex è pronto. Ma nei giorni precedenti cominciano ad arrivare segnali che annunciano la tempesta.
Gli atleti Il primo parte da Sandro Damilano, che di Alex è stato allenatore quando ha conquistato l’oro a Pechino nel 2008. Dice Damilano il 28 aprile: “So che non avrò nessun problema a salutarlo. Per Schwazer provo indifferenza, è lo spessore che ho messo tra me e lui per proteggermi. Non ho invidie, non ho risentimenti. Non rimpiango nulla. Per come lo conosco, si sarà massacrato di allenamenti. Può anche raccontarsi che è cambiato, che non sente più la gara come un tempo, ma non ci credo”.
Anche l’australiano Jarrent Tallent, medaglia d’oro ai Giochi di Londra del 2012, invoca l’esclusione di Alex dalla nazionale italiana. Il giorno dopo, sulla sua bacheca Facebook, affonda il colpo contro Schwazer il campione del mondo indoor di salto in alto Gianmarco Tamberi: Vergogna d’Italia, la nostra forza è essere puliti, squalificatelo a vita... noi non lo vogliamo in Nazionale” Ma Alex a Caracalla stravince con il tempo di 3 h e 39’ pur su un percorso pieno di curve, Tallent arriva con un chilometro di distacco. È la qualificazione per le Olimpiadi.
A fine gara abbraccia Sandro Donati. Ma ha anche un’altra brutta sorpresa. Il marciatore australiano spara nuovamente contro di lui: “Tornare e vincere in questo modo a soli dieci giorni dalla squalifica per doping come si può giudicare? La percezione che si ha da fuori, è che abbia vinto ancora una volta uno che bara”.
Medaglia d’oro ai Mondiali di marcia. Roma, 7 maggio 2016 Alex finge indifferenza ma sa che il cammino verso Rio sarà molto difficile. E più di lui ne ha consapevolezza il suo allenatore. Sandro Donati annusa un’aria fetida. E ne ha ben ragione. Alla vigilia della gara di Caracalla riceve una telefonata da Nicola Maggio, giudice di marcia internazionale che Donati conosce da tempo come “molto vicino ai fratelli Damilano”.
Alle 6.05 del 7 maggio 2016, praticamente il giorno prima del ritorno in pista di Alex, il giudice di marcia chiama Donati: “Buongiorno sono Maggio. Disturbo, immagino a quest’ora. Allora lei, per cortesia, stia calmo, l’unica cosa, la prego, glielo dica (riferendosi a Schwazer, ndr) ancora una volta fino a prima della gara, possibilmente Lasci vincere Tallent, mi capisce?” Donati registra la telefonata. Un altro dettaglio, se possiamo definirlo così, per niente insignificante. Chi c’è a fare i controlli antidoping nella gara di Caracalla? C’è Giuseppe Fischetto, proprio lui, uno dei due medici della Federazione italiana d’atletica denunciati dal marciatore e in quel momento imputati a Bolzano.
Passano i giorni e l’allenatore di Schwazer è sempre più inquieto, teme un’imboscata da un momento all’altro. Dopo la 50 km di Caracalla Alex deve andare in Spagna, a La Coruna, per partecipare alla 20 Km al Gran Premio Cantones. La gara è fissata per il 28 maggio.
Cinque giorni prima, il 23, il giudice Maggio chiama ancora Donati. È più mellifluo della prima volta ma la sostanza non cambia: “Gli dica (a Schwazer, ndr) di fare una gara bella tecnicamente, di Non andare a cercare disgrazie con i cinesi, perché non ha senso” Disgrazie. Cinesi. A La Coruna Alex non è al top, sta male, vomita a fine gara. È comunque secondo allo sprint, dopo il futuro campione olimpico, il cinese Whang Zhen. Ma Alex Schwazer è già in trappola. Alex Schwazer e Wang Zhen si stringono la mano al termine della gara. La Coruna, 28 maggio 2016 (© Federación Gallega Atletismo)
Alex positivo al testosterone e la notizia nascosta La regola vuole che quando un atleta viene beccato al doping si notifichi con rapidità la squalifica – all’interessato e alla federazione di appartenenza – se possibile dopo qualche ora. La regola. Ma nella vicenda Schwazer i boss dell’atletica mondiale giocano con un mazzo truccato.
È Capodanno del 2016 quando prelevano le urine di Alex. A fine gennaio l’analisi antidoping dà esito negativo. Dopo qualche settimana, la Federazione internazionale d’atletica decide però di fare un altro controllo “con un metodo diverso”.
Siamo al 14 aprile quando i campioni d’urina vengono nuovamente scongelati ed analizzati per la seconda volta. Sono esami più approfonditi che consentono di individuare anche minime quantità di metaboliti del testosterone. E il testosterone, nelle urine di Alex, lo trovano il 12 maggio 2016.
La “positività” di Alex Schwazer non viene comunicata alla Federazione italiana di atletica né al marciatore, il risultato è inviato al responsabile antidoping dell’atletica mondiale Thomas Capdevielle che imboscherà il report per 38 giorni.
Il 13 maggio i risultati, il 21 giugno la comunicazione ufficiale che Alex è “positivo”. Un occultamento delle prove. Dopo la comunicazione del testosterone trovato nelle urine di Schwazer l’obiettivo dei boss dell’atletica mondiale è far passare tempo: più le Olimpiadi di Rio si avvicinano e più sarà difficile per Schwazer difendersi.
Sapevano di quei risultati di Colonia ma hanno comunque lasciato marciare Alex il 28 maggio a La Coruna. Poi Thomas Capdevielle, dopo quei 38 giorni, si prende altre due settimane per le controanalisi, fa melina. Sale l’acqua alla gola di Alex Schwazer.
Intanto nelle carte dell’Agenzia mondiale antidoping scompare qualcosa. Nell’incarico affidato il 15 dicembre del 2015 all’ispettore Jenkel di eseguire un prelievo sulle urine di Schwazer era segnato il nome del paese di Alex: Racines. Nei documenti del laboratorio di Colonia del 12 maggio 2016 – quelli che certificano la “positività” del marciatore – c’è una piccola grande dimenticanza. Il verbale dice: “Località del prelievo non nota”.
Un’altra svista? Un’"aggiustatina” per mettere a posto le cose ed evitare accuse per avere accettato urine non anonime? Il verbale del prelievo di urine dell’1 gennaio 2016
I sospetti di Donati che va in Commissione Antimafia Il giorno dopo la notizia su Alex Schwazer trovato ancora una volta dopato, si scatena una miserabile caccia all’uomo. L’"operazione” dei boss dell’atletica centra il bersaglio e la preda è caduta nella rete.Qualche titolo di giornale: “Ci è ricascato”, “Non ha perso il vizio”, “È un drogato”.
Ma Alex non ci sta e non ci sta nemmeno il suo allenatore Sandro Donati che sente odore di congiura. In una conferenza stampa a Bolzano, il marciatore si presenta alle telecamere pallido, tirato, sconvolto. E con un filo di voce dice: “Evidentemente c’è qualcuno che non vuole che io vada alle Olimpiadi. Stavolta io non chiedo scusa come quattro anni fa perché non ho fatto niente”.
Il suo avvocato Gerhard Brandstätter, console onorario della Repubblica Federale di Germania per la Regione autonoma Trentino-Alto Adige e un mega studio nel centro di Bolzano, contrattacca: “Si tratta di accuse false e mostruose. È successo quello che Alex ha sempre temuto, ma noi ci difenderemo e faremo causa”.
Sandro Donati racconta come Alex sia stato monitorato per mesi. Ricorda i 35 controlli ematici all’ospedale San Giovanni di Roma inviati all’Agenzia mondiale antidoping e alla Federazione d’atletica. Spiega pure che, alle autorità sportive, Alex aveva comunicato di rinunciare alle “finestre” quotidiane sui controlli per offrire a tutti la possibilità di sottoporlo a verifiche 24 ore su 24. Poi sibila: “Per colpire me è stato macellato un atleta innocente che in passato ha sbagliato, ma è un campione immenso che avrebbe sicuramente vinto a Rio la medaglia d’oro sia sulla 20 km che sulla 50 Km”.
Tutti e tre – Schwazer, Donati e l’avvocato Brandstätter – sono turbati ma vogliono andare subito a Losanna per tentare il tutto per tutto e portare Alex a Rio. Vogliono presentare un ricorso al Tas, al Tribunale Arbitrale dello Sport per ribaltare il giudizio della Federazione internazionale di atletica.Qualche settimana dopo, l’11 luglio, Sandro Donati rilascia anche un’intervista a Repubblica. Il titolo: “Ho combattuto la mafia del doping, sono minacciato e vivo nella paura”.
L’intervista ad Alessandro Donati dell’11 luglio 2016
Sandro Donati incontra il procuratore capo della Repubblica di Roma Giuseppe Pignatone e, un paio di giorni dopo, la presidente della Commissione parlamentare Antimafia Rosy Bindi lo convoca a Palazzo San Macuto.
È il 14 luglio 2016, l’allenatore è un fiume in piena: “Qualcuno l’ha studiata grossa. Vorrei ricordare che per me è il secondo agguato, perché ne subii un altro 19 anni fa quando seguivo un’ostacolista pugliese, Annamaria Di Terlizzi, e anche allora fu manipolata la sua urina”. Un accanimento per le sue battaglie contro il doping? Gli chiedono i giornalisti all’uscita di Palazzo San Macuto. Risponde: “Di doping non si deve parlare... e chi ne parla fuori fa sempre una brutta fine”.
"Questo crucco addamorì ammazzato, devono incularsi la Kostner" L’affaire Schwazer s’infiamma sempre di più. Le Olimpiadi di Rio si apriranno il 5 agosto, Alex continua ad allenarsi lungo gli argini dell’Isarco ed è in attesa di un processo a Losanna che non si farà mai, quando Repubblica entra in possesso di tre intercettazioni telefoniche depositate alla Procura della repubblica di Bolzano, quella che indaga sul doping dei russi e sulle combine che ha svelato Schwazer.
Le intercettazioni audio aprono un istant movie di 21 minuti realizzato da Repubblica: “Operazione Schwazer, le trame dei signori del doping” dove vengono ricostruiti tutti i misteri del blitz a Racines e i particolari dell’agguato contro Alex e Donati.
Il documentario con l’audio delle intercettazioni"Le trame dei signori del doping”, 4 agosto 2016 di Attilio Bolzoni e Massimo Cappello, regia di Alberto Mascia
In tutte e tre le telefonate c’è la voce di Giuseppe Fischetto, il medico della Federazione internazionale accusato da Alex Schwazer a Bolzano.
Prima telefonata, 18 giugno 2013, ore 18.51.
Fischetto parla con Rita Bottiglieri, dirigente del Coni.
Fischetto:” Aho, ’ndo stai?”.
Bottiglieri: “Sono a casa di... Ora evidentemente la Procura di Bolzano vuole cercare riscontri riguardo alle ambizioni del marciatore”.
F: “Io sò preoccupato del materiale informatico di tutta un’attività internazionale riservata, capito?”.
B: “E va be’..."
F: “Questo crucco comunque addamorì ammazzato, devono incularsi la Kostner...”.
Carolina Kostner, campionessa mondiale di pattinaggio su ghiaccio, al tempo era la fidanzata di Alex Schwazer.
Seconda telefonata, 18 giugno 2013, ore 21.40.
Fischetto parla con un amico. E fa riferimento a un database che contiene valori ematici sospetti di molti atleti di Mosca, materiale probatorio che poi verrà utilizzato per escludere la Russia ai Giochi di Rio.
Fischetto: “Sono Giuseppe Fischetto, come stai?”.
Amico: “Oh Giuseppe, ciao come stai?”.
F: “Un po’ incazzato con la giustizia. Avrai sentito che sono venuti a sequestrarci i computer, di tutto e di più. Son venuti da me, da Rita (la Bottiglieri, ndr), prima a casa da Fiorella (l’altro medico imputato a Bolzano con Fischetto, ndr) sempre per la vicenda Schwazer. Hanno fatto un sequestro di tutto il materiale informatico che abbiamo a casa e in Fidal alla ricerca dell’idea che qualcuno possa aver sostenuto Schwazer”.
A: “Ma questo su iniziativa di chi, Giuse’?”.
F: “Del giudice di Bolzano, Va be’ so’ una rottura di palle perché m’han tolto tutti gli hard disk e ci sono anche tante cose confidenziali internazionali eh... che io spero non ci siano fughe di notizie perché succede un casino internazionale: sai metti che vengono fuori dei dati dei russi più che non dei turchi più che non degli altri, perché io sono nella commissione mondiale, tu lo sai, della Iaaf”.
Terza telefonata, 27 giugno 2013, ore 17.15.
Fischetto parla con un impiegato della Federazione d’atletica.
Fischetto: “Non la sai l’ultima? Appena chiuso il telefono con te, sai chi m’ha chiamato? Lamine Diack dandomi il massimo supporto, dicendomi di andare avanti”.
Impiegato Fidal: “Anche qui c’è la solidarietà di tutti, di chiunque”.
Lamine Diack, l’ex presidente della Federazione internazionale d’atletica prima messo sotto accusa, poi arrestato per corruzione in Francia.
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I silenzi italiani e l’umiliazione di Rio Fino agli ultimi giorni del luglio 2016 Alex Schwazer, sempre più provato ma sempre più deciso ad andare a Rio, continua a marciare sulla pista che segue il corso del fiume Isarco. Ogni mattina lui e Donati sono lì, al pomeriggio si trasferiscono nella casa che il suo allenatore ha preso in affitto a Vipiteno.
Discussioni estenuanti su come reagire alla cospirazione, a ogni ora i contatti con l’avvocato Brandstätter, le telefonate con genetisti e gli amici di ogni parte del mondo, quelle altre con il presidente del Coni Giovanni Malagò che fra tutti gli alti papaveri dello Sport italiano si mostra il più vicino a Donati. L’allenatore è teso come una corda di violino ma non molla la presa per un attimo, Alex alterna uno sfogo a uno sguardo perso nel vuoto.
Insieme aspettano un passo dal Tribunale Arbitrale dello Sport di Losanna, dove l’avvocato Brandstätter ha presentato ricorso contro la squalifica. Ma in Svizzera prendono ancora tempo. Hanno in mano tutta la documentazione e fanno finta di niente, sanno che più giorni passano e più Alex Schwazer è spacciato. Non potrà mai andare a Rio. Così l’avvocato Brandstätter prova a giocare un’altra carta.
Vuole fare un’istanza agli organi di giustizia italiana, al Tribunale nazionale antidoping. Sa che in quella sede può far valere le ragioni di Alex, può costruire una difesa che potrebbe portare ad un’iscrizione “sub iudice” ai Giochi Olimpici. Ma a Roma alzano un muro di gomma. Leonardo Gallitelli, già comandante generale dell’Arma dei carabinieri e ora responsabile della struttura antidoping italiana, fa il pesce in barile. Preferisce tenersi alla larga e si dichiara “incompetente”. Resta solo la strada di Losanna, il Tas.
Ma al Tribunale Arbitrale dello Sport, dove dal 12 maggio hanno tutto su Schwazer, dicono che devono ancora “studiare il caso”. Altro tempo se ne va. Rinvio dopo rinvio fino al 27 luglio. Ormai stanno per cominciare le Olimpiadi. Alla Federazione internazionale di atletica un giorno fa capolino quel Capdevielle, lui che è nel cuore di quel “sistema” che ha fatto scattare il controllo di Capodanno contro Alex.
La Iaaf chiede all’Agenzia mondiale antidoping un “favore”. E, colpo di scena, il processo ad Alex non si farà più a Losanna il 27 luglio ma a Rio de Janeiro il 4 agosto. È il giorno prima dell’inaugurazione dei Giochi. Sandro Donati in Brasile non ci vuole andare perché conosce troppo bene quegli uomini della Iaaf e della Wada. Alex invece non vede altro che Rio. Partono. Un viaggio che è spaventoso.
Improvvisamente, a Rio tutti hanno una fretta del diavolo. Fanno pressing su Donati e l’avvocato di Schwazer, pretendono di chiudere in poche ore e una volta per tutte la vicenda. Il Tribunale Sportivo di Losanna che non si è riunito a Losanna, a Rio snobba la sua sede distaccata in Brasile e l’atto d’accusa contro Alex Schwazer va in scena nello studio di un avvocato. È un processo farsa.
Intanto Alex si allena lungo i sei chilometri della spiaggia di Copacabana, fra i pedoni e i runner, in mezzo al frastuono dei clacson e ai fumi delle auto. Dietro di lui, in bicicletta c’è sempre Donati che gli pedala dietro. Tutti e due dormono in un albergo lontano dal villaggio olimpico, isolati da tutti gli altri atleti. Ogni giorno Alex mangia in una trattoria che è un chiosco di Copacabana. E proprio in quel luogo, il chiosco, viene a sapere della sua squalifica.
Alex Schwazer in un bar di Copacabana apprende la notizia della squalifica. Rio de Janeiro, 10 agosto 2016 È il 10 agosto del 2016. Il giorno dopo avrebbe dovuto partecipare alla 20 km e il venerdì successivo alla 50. Ma, a meno di una settimana dall’inizio delle Olimpiadi, il Tribunale Arbitrale dello Sport demolisce la carriera di Alex Schwazer. Lo squalifica per 8 anni. Il Tas accoglie tutte le richieste della Federazione d’atletica, nessuna attenuante per il marciatore altoatesino.
“Sono distrutto”, dice lui.
“È un omicidio sportivo”, dice il suo allenatore Sandro Donati.
Ma la storia di Alex non finisce qui.
Una speranza chiamata “rapporto McLaren" Colpito alle spalle, Alex è a terra. Intuisce da dove è partito il colpo ma non ha visto chi ha tirato il grilletto. Ormai è chiaro: non sarà vincendo una gara olimpica che potrà guadagnarsi il riscatto che sta inseguendo da anni.
C’è una provetta di pipì a suo nome conservata chissà come in un laboratorio di Colonia e, lì dentro, hanno trovato del testosterone. Doping. L’hanno abbattuto. A 32 anni significa la fine della carriera. E vallo a dimostrare, adesso, che non è tutta sua quell’urina che è stata “trattata”. Schwazer ne è convinto. Anche per Donati non può essere altrimenti: non solo per gli evidenti indizi ma anche perché ha avuto l’atleta sotto gli occhi tutti i giorni, hanno vissuto in simbiosi per mesi, se avesse preso sostanze se ne sarebbe accorto.
Avevano stretto un patto di sangue per dimostrare al mondo che i campioni, quelli veri, possono vincere puliti. E invece qualcuno li ha trascinati nell’angolo della vergogna. Dopo la disfatta brasiliana, Alex e Sandro tornano in Italia. Ad attendere a Bolzano il marciatore, oltre allo scherno dei suoi avversari e detrattori, c’è un’indagine per doping aperta da Giancarlo Bramante, diventato procuratore capo.
Schwazer è l’unico indagato. Parti civili offese: la Wada, la Federazione italiana di atletica leggera italiana e la Federazione internazionale. In caso di condanna, Alex rischia da tre mesi a tre anni. L’unica via di scampo per lui è rovesciare il tavolo, smettere i panni dell’accusato e vestire quelli dell’accusatore. Puntare il dito chiaramente contro quelli là, che stanno seduti al banco delle parti offese, delle “vittime”.
Se riuscisse a provare la manipolazione dei campioni di urina, si riprenderebbe l’onore. Ma è difficile, anzi di più: è quasi impossibile. Sembra davvero finita. Dalla Sicilia un giorno arriva però una telefonata. La professoressa Antonella Sidoti, responsabile del laboratorio di genetica molecolare dell’Università di Messina, contatta Donati e gli suggerisce un’idea: Fate misurare la concentrazione di dna umano: se davvero qualcuno ha manipolato la pipì di Alex inserendo del testosterone, ha dovuto necessariamente cancellare le tracce del dna estraneo, ed è molto probabile che i valori ora siano del tutto sballati” L’idea è interessante ma da sola non basta, bisogna prima dimostrare che sia possibile aprire e chiudere le provette senza lasciare segni. La fabbrica che le produce prima garantisce che sono a prova di manomissione, poi è costretta ad ammettere che non è così. Senza volerlo, è un avvocato canadese di nome Richard McLaren a dare un po’ di ossigeno alla fiammella della speranza.
Proprio in quei giorni di metà luglio del 2016 – prima che Alex torni vinto da Rio nella sua Racines – l’avvocato McLaren, incaricato dalla Wada di investigare sugli atleti russi dalle prestazioni record taroccate, pubblica un report di 97 pagine dove spiega come si possano forzare le provette.
È grazie al “rapporto McLaren” (e alle successive ammissioni della fabbrica e della stessa Wada sulla possibilità di violare i contenitori), che l’avvocato Brandstätter il 4 ottobre 2016 si presenta in Procura a Bolzano per chiedere al pubblico ministero un accertamento “aggiuntivo” sui campioni prelevati la mattina del Capodanno 2016. Il procuratore Giancarlo Bramante si convince. E da qui parte tutta un’altra storia.
Da sinistra: l’avvocato Gerhard Brandstätter, il procuratore Giancarlo Bramante e il gip Walter Pelino Le indagini sono a una svolta cruciale: con l’incidente probatorio l’ipotesi della manipolazione sarà portata per la prima volta davanti a un giudice, il gip Walter Pelino. Il magistrato affida una perizia al comandante dei carabinieri del Ris di Parma, il colonnello Giampietro Lago. Ora servono le provette, bisogna andarsele a prendere a Colonia. Ma non sarà un’impresa semplice.
La Federazione internazionale di atletica si oppone in tutti i modi e rivendica la “proprietà” della pipì di Alex, così la Procura di Bolzano ci mette un anno per ottenere dalla Corte di Appello tedesca il sequestro dell’urina. La Iaaf assicura che è congelata e stoccata in due contenitori, con quantità ben definite: “La provetta A contiene 22 millilitri di urina, la provetta B solo 6 millilitri”.
È un falso per non consegnare l’urina. Il comandante del Ris scoprirà in seguito che di urina nella provetta “B” (quella che conta ai fini probatori) ce n’è il triplo di quella dichiarata dalle autorità sportive. Il 7 febbraio 2018 il colonnello Lago – con l’avvocato Brandstätter e il genetista Giorgio Portera – viaggiano fino in Renania. Hanno in tasca l’ordinanza del giudice tedesco, ottenuta attraverso una rogatoria internazionale. Bussano alla porta dell’Istituto di biochimica di Colonia. Quando quella porta si apre, accade di tutto. Il valzer della pipì
L’accoglienza per gli italiani non è delle migliori. Inizialmente i responsabili del laboratorio non vogliono far entrare il genetista e l’avvocato, ma c’è l’ordinanza di un giudice e alla fine acconsentono. Nei locali, tra ampolle e frigoriferi, ci sono due agenti della polizia criminale tedesca e il legale della Federazione internazionale di atletica. Vogliono parlare in tedesco. Altra discussione animata, si decide per l’inglese ma poi si torna a parlare in tedesco.
Per mesi i dirigenti della Iaaf hanno tentato di opporsi all’esame del dna e provato a convincere i magistrati che, se proprio vogliono farlo, basta il campione “A”. Provetta aperta più di due anni prima e mai richiusa, priva quindi di valore di prova. I magistrati non abboccano. E ordinano la consegna anche di urina del campione “B”. Proprio quella che la Iaaf non vuole consegnare.
A Colonia, è come all’opera dei pupi. Da una porta sbuca il dottor Hans Geyer, che è il direttore del laboratorio. Ha in mano una fialetta di plastica, scongelata e non sigillata, residuo – sostiene lui – di una vecchia analisi. “È di Schwazer”, dice. Ma non è il vero campione “B”. Nel laboratorio succede il finimondo.
Il colonnello del Ris si rifiuta di prendere in consegna la fialetta di plastica. Gli rispondono i capi del laboratorio e il legale della Iaaf: Questo è il campione, se lo volete prendere bene, altrimenti tornatevene in Italia, fate reclamo, fate quello che vi pare” L’avvocato di Schwazer e il colonnello Lago telefonano ai giudici tedeschi e al giudice di Bolzano. Il gip Pelino, in vivavoce al telefono, prospetta ai presenti un’azione penale contro i responsabili del laboratorio per la “mancata esecuzione” dell’ordinanza della Corte di Appello di Colonia. Il legale della Federazione internazionale di atletica non si scompone, i chimici invece si impauriscono. Il direttore del laboratorio sparisce in una stanza (impedendo però al colonnello Lago di seguirlo) e poi torna con il vero campione “B”, congelato e sigillato.
Da questa provetta Lago preleva, come stabilito, 6 millilitri di liquido, ma si accorge che nella fiala originaria rimangono altri 12 millilitri. La Iaaf mentiva, quando dichiarava in ogni sede che il campione “B” ne conteneva solo 6. Questa urina è rimasta nelle mani dei chimici di Colonia dal 2 gennaio 2016 al 7 febbraio 2018. Due anni, un mese e cinque giorni.
Le mail hackerate Il miserevole valzer della pipì ballato nel laboratorio tedesco è l’ennesima pazzia di una vicenda sempre più attorcigliata. Schwazer e Donati, a questo punto, parlano pubblicamente di una macchinazione organizzata ai loro danni.
Troppi i sospetti: la grave interruzione della “catena di custodia”, i ritardi nella comunicazione della positività, le provette aperte, l’opposizione al sequestro, fino al puerile tentativo di consegnare al colonnello italiano dei carabinieri una fiala differente dall’originale. Un complotto. In inglese si dice “Plot”. Ed è proprio questa parola, plot, che gli inquirenti leggono in una mail trafugata dai server della Federazione internazionale di atletica leggera.
Succede che nell’estate del 2017, un anno dopo la cacciata di Alex da Rio e mentre i pm di Bolzano stanno battagliando con i legali della Iaaf per avere le provette di Colonia, Fancy Bear, un collettivo ("crew") di hacker che si dice sia composto da informatici russi, diffonde online quelli che appaiono essere documenti interni della Federazione. Ci sono anche le “conversazioni” tra il dottor Hans Geyer (il direttore del laboratorio di Colonia), l’avvocato Ross Wenzel (legale della Iaaf a Losanna) e Thomas Capdevielle (il capo dell’antidoping della Iaaf).
Estratti dell’ordinanza del Tribunale di Bolzano contenente le mail hackerate
Le mail, cinque, risalgono tutte al 20 febbraio 2017.
“Thomas – scrive alle 15.40 l’avvocato Ross al capo dell’antidoping – sembra che il laboratorio sia abbastanza restio nel sostenere l’importanza che i campioni restino nei laboratori Wada. Hanno affermato che il campione non era stato nemmeno messo da parte per la conservazione a lungo termine. È giusto? Sarebbe facile richiedere la conservazione a lungo termine. Penso che la realtà sia che il laboratorio stia cercando di essere il più neutrale possibile (ovvero, seguiamo semplicemente gli ordini della Iaaf), ma sarebbe d’aiuto se fossero disposti a sostenere la nostra posizione in una certa misura. Hans non risponde al telefono...”.
La risposta di Capdevielle arriva a stretto giro, nove minuti dopo. “Ciao Ross, si rendono conto di essere parte del complotto contro A.S. e delle potenziali conseguenze per loro? Hans probabilmente ha bisogno di più informazioni sui retroscena...”.
Torna quella parola: complotto.
E chi è A.S., se non Alex Schwazer?
Cosa si desume da questo scambio di mail? Che il capo dell’antidoping e uno dei legali della Federazione internazionale di atletica leggera, insieme stavano trafficando per convincere il direttore del laboratorio di Colonia ad abbandonare il proposito di neutralità e opporsi alla consegna delle provette agli italiani. Anche perché quel complotto c’è davvero e i chimici di Colonia, secondo Thomas Capdevielle, ci sono dentro con tutte le scarpe.
Il giudice Walter Pelino legge queste mail, le valuta ("Sono compromettenti") e rimanda al procuratore Bramante la verifica sulla loro autenticità. Il suo lavoro è un altro, la sua indagine punta altrove.
“Il compito affidato a me – scrive Pelino il 16 ottobre 2019 – attraverso la richiesta di incidente probatorio è quello di accertare, tramite duplice perizia (genetica e chimica), se emergono elementi per affermare che i campioni biologici dell’atleta Alex Schwazer siano stati manipolati”.
Da quella duplice perizia dipende il destino, l’onore, la faccia del marciatore altoatesino. Alex Schwazer e Sandro Donati si allenano a Roma Le tre ipotesi che diventano una L’urina di Schwazer contiene, oltre a tracce di testosterone, quantità elevatissime di dna dell’atleta: nel campione “A” i genetisti incaricati dal colonnello Lago ne trovano 350 picogrammi per microlitro, nel campione “B” addirittura 1.200 picogrammi.
“Non sono valori spiegabili fisiologicamente”, afferma il colonnello Lago nella sua perizia. Poi il comandante del Ris dei carabinieri lo ribadisce in aula. Soprattutto perché il dna diminuisce rapidamente con il passare del tempo, quell’urina di Alex è vecchia ormai di due anni e due mesi e, lì dentro, non dovrebbero trovarsi che poche unità di picogrammi. È un’anomalia gigantesca. Ed è anche un robusto indizio della manipolazione. Perché Schwazer ha così tanto dna nell’urina? È un marziano, forse?
L’Agenzia mondiale antidoping, durante l’incidente probatorio, prova goffamente a sostenere anche questo: che il marciatore altoatesino abbia manifestato anche in un’altra circostanza “valori non umani”. Nell’autunno scorso l’avvocato della Wada porta a Bolzano una documentazione inedita relativa a un controllo antidoping (esito: negativo) cui è stato sottoposto Schwazer il 27 giugno 2016. Secondo la Wada, quel campione di urina – analizzato a Losanna un anno dopo il prelievo – conterrebbe addirittura dna per 14.000 picogrammi per microlitro.
Il documento della Wada relativo al controllo antidoping del 27 giugno 2016 Vorrebbe essere l’asso nella manica degli accusatori di Alex, in realtà è un altro boomerang. In aula, infatti, il colonnello Lago e il gip Pelino smontano la tesi. I valori di dna richiamati sono incompatibili con la fisiologia degli esseri umani. La” prova” della Wada viene spazzata via.
Nel settembre del 2020, al termine di due perizie consecutive, si è chiuso l’incidente probatorio e gli atti sono stati mandati al procuratore Bramante. Tocca a lui adesso decidere cosa fare di Alex Schwazer: se archiviare le accuse di doping o se mandarlo a processo per frode sportiva. Il colonnello Giampietro Lago ha lasciato sul tavolo tre ipotesi che possono spiegare la concentrazione elevata di dna di Alex:
1) la reazione del fisico del marciatore all’assunzione di testosterone (ma il testosterone presente nell’urina di Alex era una quantità ininfluente non rilevato alla prima analisi);
2) la conseguenza di una malattia alle vie urinarie, tipo una cistite (ma è la stessa Wada a negare che Schwazer abbia avuto una grave infezione per oltre sei mesi);
3) la manipolazione della provetta con lo scopo di incastrare l’atleta.
Un teorico terzo delle probabilità per ciascuna ipotesi. In realtà, la bilancia statistica pende chiaramente verso una parte sola. Lo riconosce anche il colonnello Lago durante l’incidente probatorio: due ipotesi sono prive di un qualsiasi riscontro. C’è peraltro un recente studio del professore giapponese Haruhito Aoki, direttore del laboratorio Wada di Tokio, che dimostra come in 112 soggetti trattati con il testosterone endovena le concentrazioni di dna nella pipì rimanevano basse. Quindi, da tre ipotesi, realistica ne resta una.
La più evidente. Manipolazione. L’esultanza di Alex Schwazer e Sandro Donati dopo la vittoria a Roma nel 2016 Marcia, marcia sempre Da questa parossistica successione di omissioni e di reati commessi alla luce del sole emerge un mondo – quello dello sport mondiale – che non vuole essere giudicato da nessuno. Inviolabile e intoccabile.
“Ma ci sarebbe ancora il tempo, se pur in ritardo e solo in parte, di riparare al danno enorme causato ad Alex Schwazer e anche a me che sono il suo allenatore e anche all’immagine dello sport”, spiega Sandro Donati.
E come? “Trovando il modo di aprire un’indagine sportiva seria che individui le responsabilità più gravi e che intanto annulli con effetto immediato la squalifica di Alex. Dopo tutto quello che è avvenuto il controllo antidoping non può più essere quello di prima, è impensabile che le istituzioni sportive pretendano di ergersi a soggetto incorruttibile e al di sopra delle parti non dando la possibilità all’atleta per esempio di custodire una piccola aliquota dell’urina raccolta da conservare in un laboratorio accreditato per potersi difendere all’occasione”.
Se riavvolgiamo i fili di questa storia possiamo anche ritrovare alcuni protagonisti e scoprire il destino che hanno avuto nei mesi e negli anni a venire.
Il potente ex presidente dell’atletica mondiale, il senegalese Lamine Diack, il 16 settembre scorso è stato condannato per corruzione – milioni di euro – dai giudici francesi a 4 anni di reclusione per avere “coperto” 23 atleti russi dopati. È agli arresti domiciliari a Parigi. Al figlio Papa Massata, consulente marketing della Iaaf, di anni per le stesse accuse gliene hanno dati 5 ma è libero a Dakar dove alleva galline.
Al responsabile dell’antidoping Gabriel Dollé (gli avevano trovato 45 mila a casa dentro la lavatrice) condanna a 2 anni con la condizionale.
I medici Giuseppe Fischetto e Pierluigi Fiorella sono stati condannati in primo grado nel 2018 dal Tribunale di Bolzano e assolti in appello nel 2019 per favoreggiamento al doping.
Il giudice di marcia internazionale Nicola Maggio – quello delle telefonate di “avvertimento” a Donati – nel luglio 2017 è stato “inibito” per undici mesi e oggi fa ancora il giudice di gara.
Alex Schwazer il 7 settembre 2019 si è sposato con Kathrin Freund, una ragazza di Vipiteno. Ed è nata Ida. È in arrivo anche un fratellino. Alex continua ad allenarsi col “prof” sugli argini dell’Isarco. Marcia, marcia sempre. E, a quanto pare, anche molto veloce.