Corriere della Sera, 3 novembre 2020
Da "Rinascimento Babilonia. Una storia erotica dell’arte italiana" di Luca Scarlini (Marsilio)
Il 15 agosto 1513 a Siena correva al Palio dell’Assunta un cavallo “leardus pomellatus”, ossia maculato, e “sfregiatus”, che apparteneva, come altri animali in competizione, a un artista illustre e controverso. Giovanni Antonio Bazzi dalla nativa Vercelli era infatti sceso a Siena, dove aveva fatto fortuna e aveva meritato per le sue scelte d’eros il nome, esplicito e inaudito, di Sodoma.
Aveva legato le sue sorti a quelle della potente famiglia Chigi, che lo aveva portato a Roma, all’incarico prestigioso di dipingere la Stanza della Segnatura in Vaticano. Nell’elenco conservato in una biccherna del Comune si trova per la prima volta in quell’occasione il soprannome con cui è entrato nel canone della storia dell’arte: un appellativo inequivocabile, per il quale gli studiosi piemontesi hanno voluto trovare un improbabile riferimento a un «sumduma», ossia «su andiamo», rivolto ai suoi giovani di bottega, per sollecitare la prosecuzione di lavori proditoriamente interrotti, ma il cui senso è assai chiaro, al di là dell’ipocrisia storica. La sua fama, insomma, è quella riassunta con gusto pettegolo da Giorgio Vasari nella seconda edizione delle sue Vite: «Era oltre ciò uomo allegro, licenzioso, e teneva altrui in piacere e spasso, con vivere poco onestamente; nel che fare, però che aveva sempre attorno fanciulli e giovani sbarbati».
La passione per i ragazzi era pari a quella per gli animali, di cui si contornava ossessivamente: «tassi, scoiattoli, bertucce, gatti mammoni, asini nani, cavalli barbari da correre palii, cavallini piccoli dell’Elba, ghiandaie, galline nane, ma oltre tutte queste bestiacce aveva un corbo che da lui aveva così bene imparato a favellare, che contrafaceva in molte cose la sua voce». Quell’anno per la cronaca il cavallo di Sodoma vinse il premio; il fantino (che all’epoca a Siena si definiva con un termine irresistibilmente camp «ragazzius») si chiamava Vulpius. I suoi ragazzii erano in buona sostanza un harem, per l’uso suo personale del Sodoma e, nel caso, dicono le malelingue per mercato di prostituzione, con clienti illustri di passaggio. I boys avevano nomi poetici: Expaza campagna, Amadio non può perire, Altri pensa e dio dispone, Pesta guerra, Zampogna. Molti di loro erano marchette e ladri: tra i protetti dell’artista vi fu Francesco Magagni, detto Giomo del Sodoma, che viveva con lui, il quale era un pessimo soggetto. Infatti, quando l’artista si ritrovò ricoverato a Firenze all’ospedale di Santa Maria Nuova, rubò quanto poté nella sua dimora, incluso, così vuole una nota dell’atto del processo, «un libro di nigromantia con più lettere e scripture tucte drento in decto scatolone». Nel 1514 il Sodoma aveva vinto il Palio dell’Assunta, in agosto: ma da quell’anno le biccherne ci informano, implacabili, che dové comparire in giudizio. Il fatto è che aveva la lingua lunga ed era d’umore mordace. Si susseguono quindi per molti anni incarichi importanti, tra cui la creazione degli archi effimeri per la visita di Leone X, e continue cause, che coinvolgono lui, i mercanti di legname e di materie per i colori.
La fama dell’artista a Siena, dove era personaggio pubblico di grande celebrità, era notevolissima; egli peraltro era anche figura assai controversa. Eurialo d’Ascoli, poeta e improvvisatore di una certa fortuna, commenta positivamente, insieme ad altri otto lavori, una felice Lucrezia dell’artista (ne restano varie, tra cui quella, stupenda, della Pinacoteca sabauda di Torino). Così in una moderna versione italiana l’autore conclude la lirica in cui prende le fattezze della bella dama romana, annunciando al mondo le passioni del Sodoma: «La bella Venere mi concede di nutrirmi dell’aria della vita/affinché, Sodoma, io ti distolga dai teneri fanciulli/ Il Sodoma è un pederasta/ perché ti fece così viva? Invece di Ganimede, ha già le nostre natiche». Malgrado le sue passioni evidenti, il Comune faceva gran conto del suo talento: ebbe a insistere assai nel 1538 perché lo rimandassero indietro da Piombino, essendo stato prestato alla corte provinciale degli Appiani, che lo volevano trattenere oltre i termini del contratto.
Circola in quegli anni una passione per le scienze occulte nella Siena che giunge alla fine della sua indipendenza, che coinvolge figure come Domenico Beccafumi. La città è nelle mani del lunatico suo signore Pandolfo Petrucci, prima di passare sotto l’ubbidienza ai Medici. Da allora resterà il mito della checca pittorica, senza vergogna e senza rimedio, con un nome da pronunciare a mezza voce agli esami di storia dell’arte o da cercare di travestire con appigli linguistici tanto esili quanto improbabili. Egli invece aveva ben chiarito, al tempo suo, che avrebbe preferito vivere al tempo antico, di cui possedeva antichaglie importanti nella sua magione di Siena; amando la finzione classica, aveva chiamato i suoi figli Apelle e Faustina.