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 2020  novembre 04 Mercoledì calendario

Frammenti di vecchie interviste a Gigi Proietti

Secondo e ultimo viaggio tra le parole di Gigi Proietti e le interviste rilasciate al Fatto.
Cosa ci ha lasciato Shakespeare?
Si può trascorrere la vita intera a cercare di capirlo. Shakespeare è un pozzo senza fondo e non ti puoi limitare alla lettura del testo: ogni volta che ci rimetti mano scopri che certe cose non le avevi viste e altre ancora non le avevi proprio comprese… Al ginnasio, con un improbabile tutù, avevamo portato in scena Il lago dei cigni.
In tutù?
Cortissimo, legato con uno spago, una cosa tremenda. Frequentavo il liceo Augusto, sulla Tuscolana e vivevo in periferia, al Tufello. Quando a mio padre assegnarono il lotto delle case popolari, improvvisò una danza. Sembrava avessimo vinto al Totocalcio.
L’avrebbe voluta laureato.
Una bandiera sul percorso della realizzazione sociale. Mi sognava sistemato, con un compenso sicuro… Poi andavo a cantare e in una sera, esibendomi, guadagnavo più di quanto papà non riuscisse a mettere insieme in un mese.
E il resto è storia.
Mi sembra di aver fatto di tutto. ’Na specie de ’ndo cojo, cojo… Persino un Sandokan televisivo con quel fenomeno di Gregoretti. Mi sono divertito molto. Can can degli italiani, lo spettacolo con il quale debuttai, era raffinatissimo: i testi di Vollaro, Arbasino e Flaiano. Vi ricordate la sua battuta sul Louvre? Gli chiedono quale opera salverebbe se il museo bruciasse e lui: ‘Quella più vicina all’uscita’.
Compagni di strada indimenticabili?
Certi fratelli illegittimi purtroppo se ne sono andati. Con Gassman e Bene passammo serate memorabili. Ci ritrovammo a L’Aquila. Eravamo una setta dedita alle libagioni. Dopo una settimana non si trovava più un goccio di vino.
Bene era straordinario.
Sì, assolutamente. In molti si rifanno a lui, ma non lo conoscono. Se osavi parlargli di sperimentazione, non discuteva. Ti dava direttamente una bastonata. Esagerare era parte della sua cultura barocca, del suo poetico girovagare. Mi ricordo che voleva mettere in scena una pièce su San Giuseppe da Copertino… Una volta, a cena, all’ennesima citazione da Schopenhauer gli chiesi: ‘Ma a che pagina lo dice?’. Ridemmo. Spesso quelle ‘citazioni’ non erano che sue intuizioni forti e sublimi.
Si è piaciuto.
Più dopo che prima. Sono stato di una precisione ossessiva. Gassman mi prendeva in giro: ‘Sei maniacale’. Riascoltandomi, mi sono stato antipatico.
Il tempo comico è tutto?
Quando lavorai col grande Peppino De Filippo ne La bottega del caffè, mi accorsi per la prima volta che la risata non è solo improvvisazione. È un sistema: i tempi dello sketch erano studiati sacralmente.
Come andò?
Peppino, durante le prove, prima di pronunciare una battuta, toccò un balconcino con un bastone. Poi venne avanti in silenzio verso la platea e la declamò. Tutti i presenti, attori e tecnici, risero. Lui chiese una pausa: io lo spiai e mi accorsi che, nel percorso dal balconcino al centro della scena, aveva contato mentalmente fino a otto.
Aveva studiato i tempi?
Aveva ‘fissato’ la battuta, trattandola alla stregua di un tempo musicale.
Che altro le insegnò De Filippo?
Non dimenticare chi è venuto prima di noi è essenziale: ricordatevelo, giovinetti. Peppino poi era adorabile. Osservare lui e Fabrizi è stato un privilegio. Un giorno sul set di Tosca Gigi Magni si appropinqua complice e mi fa: ‘Oggi Aldo ce regala la botta’.
Cos’era la botta?
Spiegarlo è dura. Lui faceva un’espressione con la faccia che ti commuoveva. Strabuzzava gli occhi, muoveva il volto, torceva i lineamenti. Si dirigeva da solo: ‘Silenzio, motore, ciak, azione’. Faceva girare un certo numero di scene e poi al direttore della fotografia, prima di smettere, faceva un cenno: ‘Stampi la quarta e la sesta’. E sicuramente quelle scelte da Fabrizi facevano piagne.
E Fellini?
Imprevedibile. Veniva a vedermi, guardava un pezzo di spettacolo, magari tornava il giorno dopo. Se non avesse trovato i fondi per La città delle donne, lo avremmo fatto al Teatro Tenda.
Al Teatro Tenda c’era A me gli occhi, please: migliaia di persone in fila. Era teatro popolare?
Me volete provoca’? Quello sì, lo era, ma non abbiamo ancora capito come accadde il miracolo… Il Tenda poteva contenere quasi 3.000 persone, io sarei stato contento di 500. La sera della prima, mentre mi preoccupavo dei possibili vuoti, vennero da me increduli mia moglie Sagitta e Roberto Lerici: ‘La fila è lunga chilometri’. Li mandai a fare in culo, poi mi affacciai. Era vero. Dopo qualche settimana, un massaggiatore che mi manipolava tutte le sere, mi disse la cosa più bella.
Cosa, Proietti?
A Gi’, me levi ’na curiosità? Ma che vuor di’ pleaaaase?