il Fatto Quotidiano, 4 novembre 2020
Ritratto al veleno di Giovanni Toti
Considerandosi indispensabile allo sforzo produttivo del Paese, Giovanni Toti, in arte governatore della Regione Liguria, è cresciuto spensierato e vincente fino alla giovane età degli attuali asintomatici in carriera, 52 anni tondi. Lo ha fatto grazie alla benevolenza del più vecchio di tutti i viandanti incontrati salendo la sua scala sociale, Silvio B., che un giorno di venticinque anni fa lo ha assunto in Mediaset, gli ha messo in mano una tastiera da giornalista, che lui rese così ergonomica e accogliente da guadagnarsi in fretta i galloni di caporedattore, poi vicedirettore, infine doppio direttore. Prima di Studio Aperto, poi di Rete4, dove sgomberò l’anzianissimo e non indispensabile Emilio Fede con il suo bagaglio di Meteorine. Infine, gli concesse di maneggiare – da un balcone di Villa Paradiso, clinica dove si fabbricano lattughe per la dieta – lo scettro politico di Forza Italia, quando Forza Italia ancora esisteva, sebbene già gracile per la bancarotta del 2011 e il malanno perpetuo degli scandali. Erano tempi bui e a tutti sembrava una buona idea sostituire le fiamme peccaminose che Ruby ancora emanava, con la nuvola di borotalco dalla quale usciva ogni mattina Giovanni Toti, detto l’Ammorbidente.
Non funzionò. Per la semplice ragione che quel suo sorriso educato dai paesaggi in fiore della Versilia, la sua rotondità di carattere, era solo apparenza e l’angioletto uscito dall’addestramento di Mauro Crippa, il super direttore delle News Mediaset, di formazione turbo leninista, era in realtà un satanasso nel prendere la palla al balzo. O come scrissero i suoi compari del Foglio “un delfino che si è fatto piranha”.
Perciò nel torrido luglio del 2019, quando si accertò che Silvio B. giaceva ormai stordito dall’afa e dal suo raffinatissimo gineceo – Francesca Pascale, Mariarosaria Rossi, Deborah Bergamini, tutte oggi ripudiate – radunò la diaspora al teatro Brancaccio di Roma per dire addio a Forza Italia, “macchina gloriosa, ma vecchia” (ci risiamo) ed estrarre il punto esclamativo della sua nuova formazione “Cambiamo!” da lanciare in soccorso del vincitore Matteo-49-milioni-Salvini, che purtroppo per lui – e forse anche per qualche sergente del Cremlino addetto alle periferie dell’impero – stava per suicidarsi dentro ai Mojito del Papeete.
Toti non è un refuso e non ha mai giocato al calcio. Nasce a Viareggio nell’anno formidabile del 1968, padre albergatore, madre casalinga. Infanzia e adolescenza attutite dalla sabbia del litorale. Studia poco, ma sempre il giusto. Si iscrive a Scienze Politiche alla Statale di Milano dove fa tutti gli esami meno uno. Gli piace viaggiare, bere, mangiare, scegliere le cravatte, fumare col filtro. Cresce contento degli anni 80. Dice: “Io credo che il riflusso, l’individualismo e il disimpegno siano stati fattori positivi”. Per questo diventa craxiano, “anche se moderatamente”. E siccome gli piacciono “la competitività aziendale e il merito”, nel 1996 entra in Mediaset raccomandato dal padre della fidanzata e si arruola nella battaglia anti giudici condotta da Paolo Liguori, garanzia di temperanza. Virtù che Toti pratica fino all’apoteosi giornalistica de “La guerra dei vent’anni”, anno 2013, uno speciale tv in difesa di Silvio B. e delle sue cene eleganti che andrebbe proiettato e studiato in ogni scuola di giornalismo, come modello esemplare di disinformazione pop.
Come nell’invidiabile Corea del Nord, dopo l’omaggio al Capo, il Gabibbo bianco, come lo chiama Striscia la Notizia, riceve il titolo di “consigliere politico” e l’incarico di compiere l’impresa più ardua, conquistare la rossa Liguria che dai tempi del Boom mastica cemento, devasta le sue coste, i suoi torrenti, i suoi borghi, nel cupio dissolvi del progresso esentasse. La solita sinistra divisa in tre liste, compie il miracolo di farlo vincere. Esulta Toti che festeggia a Portofino, mangiando pansotti al sugo di noci con gli alleati: “La destra unita vince. Oggi la Liguria diventa una regione normale. Siamo il laboratorio nazionale dei moderati”.
Nei suoi primi cinque anni il laboratorio si inceppa. Sul modello lombardo, Toti taglia la sanità pubblica in favore di quella privata. L’economia rallenta, il disavanzo della Regione cresce, i giovani non fanno figli e quando possono, emigrano. Le panchine davanti al mare si riempiono di concittadini “non indispensabili allo sforzo produttivo”. Ogni tanto arriva la frana, l’incendio, l’alluvione a rallentare il bed & breakfast collettivo. Poi passa.
Probabile che la sua avventura di governatore sarebbe finita lì se l’immensa tragedia del Ponte Morandi, 14 agosto 2018, 43 morti, non avesse redistribuito le carte prima dello spavento, della rabbia. Poi dell’idem sentire per la rinascita di Genova, della Liguria, in nome dell’orgoglio nazionale.
Per 24 mesi il cantiere della Salini fila senza intoppi e senza Tar, fino alle fanfare dell’inaugurazione. Il rammendo disegnato da Renzo Piano, diventa così il modello della ripresa, la prova provata del laboratorio Liguria, grazie alla quale anche Giovanni Toti trova il modo di ancorare la sua seconda candidatura vincente.
Stavolta la musica della “destra unita che vince” cambia un po’. Le poltrone della nuova giunta le spartisce con la Lega e i fratellini di Giorgia Meloni. Agli ex amici di Forza Italia nulla, archiviati. In compagnia degli occhioni di Mara Carfagna progetta di diventare “l’area moderata dell’alleanza, non succube del sovranismo populista”. Che poi sarebbe l’eterna moneta di conio democristiano. Chi se ne frega se intanto ha fatto venire l’emicrania a Silvio B. che adesso strilla: “L’ho nominato io e neanche mi risponde al telefono!”.
Peccato che quando ha avuto il Ponte e i voti sia arrivato il Covid. Con le spiagge e le discoteche troppo piene questa estate, quando diceva: “È ragionevole confidare in un miglioramento progressivo”. E gli ospedali troppo intasati oggi per occuparsi delle sue nuove architetture trasformiste che rischiano di lasciarlo appeso senza rete. E troppi nemici intorno ad aspettare il botto.