4 novembre 2020
Biografia di Denis Verdini
Filippo Ceccarelli, la Repubblica
In politica, per la verità, non sono mai mancati i Verdini. Nel senso di uomini politici esemplari sul piano della spregiudicatezza e dell’improntitudine – anche se il tentativo di definizione è povero, non dice tutto. Non dice ad esempio che anche i Verdini, forse, hanno un cuore. Per cui nel procedimento che l’ha portato agli ultimi guai, e nel quale il Pm lo designò «assetato di potere e di denaro», a un certo punto (era il giugno del 2018) Denis si commosse fino alle lacrime per la gravità delle accuse, per la piega che aveva preso il processo, ma anche per la brutta reputazione.
Eppure, qualche mese prima, sempre in quell’aula si era paragonato al «facilitatore di Pulp fiction », forse dimenticando quali mansioni avesse svolto (pulire l’interno di una macchina dopo un sanguinoso assassinio). Nel film di Tarantino il personaggio interpretato da Harvey Keitel, Mister Wolf, era piuttosto discreto, se non sfuggente. Non così Verdini, la cui fama è senz’altro incoraggiata, oltre che dal possesso di un’auto tipo emiro (una Maybach che nessuna scorta si azzardava a guidare), da un physique du role che per via della capigliatura leonina e del forte accento toscano lo colloca quasi immediatamente in un immaginario da inferno dantesco. Vocione, poi, andatura pesante, modi sbrigativi, gemelloni d’oro al polso, oltre a quelle scarpette blu di camoscio, modello Briatore ma senza nappine, che alcuni anni orsono indussero lo storico e allora senatore democratico Gotor a una riflessione su un’incompatibilità antropologica, addirittura. Chi crede al peccato originale è dispensato da tali considerazioni. In compenso, si può aggiungere che nella leggenda nera della Seconda Repubblica spesso e volentieri a Verdini si è attribuita l’originaria professione di macellaio. In realtà da giovane deve aver commerciato carne all’ingrosso; quanto ai primi passi in politica, strano a dirsi, ma sono legati al Partito repubblicano, tecno-elitario e snob, e a Spadolini, che era un grande intellettuale.
L’odierna e ricca villa di Verdini, a Pian de Giullari, non è lontana da quella di Giovannone. Ogni tanto è preda di qualche strano furto: l’ultima volta i “ladri” hanno annerito con l’accendino una foto-ritratto di Salvini, che da qualche tempo sta con la figlia di Denis, Francesca; coincidenza meta-coniugale che a un certo momento della recente storia politica, diciamo prima del Papeete, ha fatto sì che venisse salutato con l’augurale titolo di Suocero d’Italia.
Data per acquisita la ricorrenza di figure “alla Verdini”, c’è da dire che nella Repubblica dei partiti, questi personaggi rispondevano a qualche motivazione ideologica. Ma da una ventina d’anni si può ipotizzare che le loro mansioni e attitudini, per lo più indispensabili nel retrobottega del potere, si siano come autonomizzate all’insegna del loro tornaconto, di quello del leader e/o del clan che gli sta azzeccato in qualità di cerchio, giglio, raggio o tortello magico. In questo senso Verdini ha fatto comodo a tanti. Innanzitutto a Re Silvio, monarca assoluto, per entrare nelle grazie del quale, pur essendo repubblicano, si è dovuto tagliare i baffi – ma ne valeva la pena. Berlusconi d’altra parte aveva bisogno di un tipo svelto, spiccio e risoluto dopo che gli era venuto a mancare Cesare Previti. Per il Cavaliere Denis ha svolto il ruolo di Orco, sia pure umanamente simpatico, all’interno di Forza Italia e fuori. Poi la Fortuna, risorsa machiavellica, l’ha assistito e proprio mentre il ciclo berlusconiano si stava chiudendo, Verdini è riuscito ad allungarglielo recando in dote un rapporto abbastanza misterioso – impicci toscani – ma certo molto stretto con il giovane Renzi. Così il Patto del Nazareno ha dato a Denis un rilievo politico tanto insperato quanto complementare al vecchio ruolo di chi si sporca le mani fino al gomito.
Neanche a farlo apposta prima si è presentato in letizia come “l’idraulico” di Renzi; poi, forse montatosi un po’ la testa e raccattati una serie di parlamentari irrequieti – sua sperimentatissima specialità – si è messo in proprio, alla guida di una specie di legione straniera cui ha dato nome “Ala”, offrendo i voti al governo Gentiloni (voti accettati).
Dopo di che ha gorgheggiato al ristorante e in tv (“La maggioranza, sai, è come il vento” e “Se mi lasci non vale”). Ha fatto amicizia con De Luca. Ha rivendicato una funzione di collegamento fra i due Mattei. Però nel frattempo ha anche collezionato quattro rinvii a giudizio e una condanna da ieri definitiva. Inutile dire che nelle storie di potere è quasi inevitabile.
In politica, per la verità, non sono mai mancati i Verdini. Nel senso di uomini politici esemplari sul piano della spregiudicatezza e dell’improntitudine – anche se il tentativo di definizione è povero, non dice tutto. Non dice ad esempio che anche i Verdini, forse, hanno un cuore. Per cui nel procedimento che l’ha portato agli ultimi guai, e nel quale il Pm lo designò «assetato di potere e di denaro», a un certo punto (era il giugno del 2018) Denis si commosse fino alle lacrime per la gravità delle accuse, per la piega che aveva preso il processo, ma anche per la brutta reputazione.
Eppure, qualche mese prima, sempre in quell’aula si era paragonato al «facilitatore di Pulp fiction », forse dimenticando quali mansioni avesse svolto (pulire l’interno di una macchina dopo un sanguinoso assassinio). Nel film di Tarantino il personaggio interpretato da Harvey Keitel, Mister Wolf, era piuttosto discreto, se non sfuggente. Non così Verdini, la cui fama è senz’altro incoraggiata, oltre che dal possesso di un’auto tipo emiro (una Maybach che nessuna scorta si azzardava a guidare), da un physique du role che per via della capigliatura leonina e del forte accento toscano lo colloca quasi immediatamente in un immaginario da inferno dantesco. Vocione, poi, andatura pesante, modi sbrigativi, gemelloni d’oro al polso, oltre a quelle scarpette blu di camoscio, modello Briatore ma senza nappine, che alcuni anni orsono indussero lo storico e allora senatore democratico Gotor a una riflessione su un’incompatibilità antropologica, addirittura. Chi crede al peccato originale è dispensato da tali considerazioni. In compenso, si può aggiungere che nella leggenda nera della Seconda Repubblica spesso e volentieri a Verdini si è attribuita l’originaria professione di macellaio. In realtà da giovane deve aver commerciato carne all’ingrosso; quanto ai primi passi in politica, strano a dirsi, ma sono legati al Partito repubblicano, tecno-elitario e snob, e a Spadolini, che era un grande intellettuale.
L’odierna e ricca villa di Verdini, a Pian de Giullari, non è lontana da quella di Giovannone. Ogni tanto è preda di qualche strano furto: l’ultima volta i “ladri” hanno annerito con l’accendino una foto-ritratto di Salvini, che da qualche tempo sta con la figlia di Denis, Francesca; coincidenza meta-coniugale che a un certo momento della recente storia politica, diciamo prima del Papeete, ha fatto sì che venisse salutato con l’augurale titolo di Suocero d’Italia.
Data per acquisita la ricorrenza di figure “alla Verdini”, c’è da dire che nella Repubblica dei partiti, questi personaggi rispondevano a qualche motivazione ideologica. Ma da una ventina d’anni si può ipotizzare che le loro mansioni e attitudini, per lo più indispensabili nel retrobottega del potere, si siano come autonomizzate all’insegna del loro tornaconto, di quello del leader e/o del clan che gli sta azzeccato in qualità di cerchio, giglio, raggio o tortello magico. In questo senso Verdini ha fatto comodo a tanti. Innanzitutto a Re Silvio, monarca assoluto, per entrare nelle grazie del quale, pur essendo repubblicano, si è dovuto tagliare i baffi – ma ne valeva la pena. Berlusconi d’altra parte aveva bisogno di un tipo svelto, spiccio e risoluto dopo che gli era venuto a mancare Cesare Previti. Per il Cavaliere Denis ha svolto il ruolo di Orco, sia pure umanamente simpatico, all’interno di Forza Italia e fuori. Poi la Fortuna, risorsa machiavellica, l’ha assistito e proprio mentre il ciclo berlusconiano si stava chiudendo, Verdini è riuscito ad allungarglielo recando in dote un rapporto abbastanza misterioso – impicci toscani – ma certo molto stretto con il giovane Renzi. Così il Patto del Nazareno ha dato a Denis un rilievo politico tanto insperato quanto complementare al vecchio ruolo di chi si sporca le mani fino al gomito.
Neanche a farlo apposta prima si è presentato in letizia come “l’idraulico” di Renzi; poi, forse montatosi un po’ la testa e raccattati una serie di parlamentari irrequieti – sua sperimentatissima specialità – si è messo in proprio, alla guida di una specie di legione straniera cui ha dato nome “Ala”, offrendo i voti al governo Gentiloni (voti accettati).
Dopo di che ha gorgheggiato al ristorante e in tv (“La maggioranza, sai, è come il vento” e “Se mi lasci non vale”). Ha fatto amicizia con De Luca. Ha rivendicato una funzione di collegamento fra i due Mattei. Però nel frattempo ha anche collezionato quattro rinvii a giudizio e una condanna da ieri definitiva. Inutile dire che nelle storie di potere è quasi inevitabile.
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Gianni Barbacetto, il Fatto Quotidiano
Un posto nel Pantheon della Seconda (o Terza?) Repubblica, Denis Verdini se l’è comunque conquistato. Solo lui è riuscito ad attraversarne da kingmaker tutte le mutevoli stagioni, passando da Silvio Berlusconi a Matteo Renzi, fino all’altro Matteo, Salvini. Ora il finale è mesto, ma dopo una dozzina d’inchieste e mezza dozzina di processi, c’era da aspettarselo. I soliti guastafeste in toga hanno rovinato una lunga storia di affari e politica, di carne e giornali, di banche e terremoti, pale eoliche e grembiulini, destra e sinistra, patti e amici, soldi e promesse.
“Sono come Wolf, risolvo problemi”, disse di sé evocando il personaggio di Pulp Fiction. Non era in California, ma nell’aula 9 del Tribunale di Roma, dove stava cercando di spiegare il suo ruolo nella cosiddetta P3 e, più in generale, nella politica e negli affari: “Sono un facilitatore, sono rapido”.
La sua rapida, lunga corsa comincia a Fivizzano, già patria di Sandro Bondi, politico e poeta, ma si assesta a Firenze, dove fa gli incontri che determinano la sua vita. Si occupa di macellerie, commercio di carni, import-export di bovini. Ma il Macellaio ha due passioni: le banche e la politica. Diventa presidente della Cassa Rurale e Artigiana di Campi Bisenzio, che poi si trasforma in Credito Cooperativo Fiorentino. Ed è vicino di casa di Giovanni Spadolini: tenta le prime, sfortunate prove elettorali nel Partito repubblicano.
L’incontro che lo segna è quello con Giuliano Ferrara, che nel 1997 cala in Toscana per contrastare Antonio Di Pietro, candidato senatore del centrosinistra nel Mugello. Denis gli fa da taxi, con la sua prima Mercedes bianca, su e giù per le colline. Il Macellaio diventa il Taxista: la sconfitta era assicurata, ma gli apre la strada per diventare editore (del Foglio) ed essere ammesso alla corte di Silvio Berlusconi, che lo annusa e capisce in un momento le sue capacità di “risolvere problemi”.
Esce da un’inchiesta per violenza sessuale ed entra in una serie d’indagini per soldi spariti e bilanci storti. Dalla carne è passato alla carta, come editore del Foglio e del Giornale berlusconiano, edizione della Toscana, che non gli porta soldi ma relazioni e amici, da Gianni Letta a Luigi Bisignani, da Marcello Dell’Utri (“Per me è un’icona, un punto di riferimento, una figura carismatica”) a Daniela Santanchè, da Guido Bertolaso a (giù a Sud) Nicola Cosentino. È ormai colui che dà le carte al tavolo di Forza Italia e di tutta la coalizione di centrodestra. All’ombra del Principe, tesse relazioni, decide carriere, consolida poteri. Ma galeotta fu la carta: un certo Tiziano Renzi, distributore con barbetta dei suoi giornali a Rignano e dintorni, ha un figlio in politica. Promettente. Denis lo fiuta e nel 2005 lo porta da Silvio: “Lo devi assolutamente conoscere. Non è dei nostri, ma è bravo. Un comunista più anticomunista di questo non s’è mai visto”. Farà strada, infatti, conquisterà il Pd. E Denis continuerà a fare il suo lavoro: intesse accordi, progetta patti. Nasce quello del Nazareno. Quando Silvio declina, sogna il Partito della Nazione. Il Taxista traghetta uomini e poltrone: “Tutti mi chiedono cosa ci guadagnano a venire con me. Gli rispondo che sono il taxi. Vuoi rimanere al potere? Solo io ti conduco in dieci minuti da Berlusconi a Renzi”. Peccato che intanto i guastafeste in toga continuino a lavorare, le inchieste si moltiplicano, i processi corrono, alla P3 si aggiunge la P4, senza dimenticare il vecchio amico della P2, Flavio Carboni (“Un personaggio vulcanico, pieno di fantasia e di voglia di fare, forse un po’ troppo insistente, a volte”).
Peccato anche che il referendum di Renzi e le elezioni politiche non vadano come Denis sperava. Piombano a Roma gli alieni a cinquestelle. Un contatto gli resta, colpa dell’amore: la figlia Francesca diventa la fidanzata dell’altro Matteo. Ma è troppo poco per costruirci su strategie politiche. E poi Salvini si autoesclude dal governo. A Denis il Suocero non resta altro che scendere dal taxi e accettare che la sentenza sia eseguita.