Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2020  novembre 04 Mercoledì calendario

Dazi e virus, globalizzazione in ritirata

La globalizzazione è malata. L’Europa, minata dal Coronavirus, non si sente tanto bene. Ma, alla fine, l’Europa è l’unica cura per se stessa. Merkel e Macron chiudono la Germania e la Francia. Ma lasciano aperte le fabbriche e accentuano l’attività in remoto di banche e servizi, così che la manifattura continentale non si spenga.
La deriva del Covid-19 è soltanto l’ultimo passaggio – radicale ed estremo, nella sua natura patologica e biologica – di una evoluzione che riguarda il mondo nato negli anni Novanta dalla integrazione delle piattaforme produttive nazionali e dall’incremento del libero commercio. E, in un momento in cui si mescolano la crisi della globalizzazione e le guerre commerciali, i ribaltamenti geopolitici e la maledizione biblica del Coronavirus, l’industria europea rappresenta una opzione vitale.
Immaginate un grande organismo unico. Complesso e articolato, ma coeso. E, poi, immaginate invece che questo organismo inizi a decomporsi. A dare vita a più forme di vita. Differenti. Distinte. L’una contro l’altra armate. In una competizione meno armonica e più imprevedibile. Anzi, più opaca e limacciosa. È quello che sta capitando alla catene globali del valore. Il capitalismo internazionale si sta riorganizzando. Il Covid-19 non è soltanto un virus che entra nei corpi degli esseri umani e, a seconda dei casi, può andarsene quasi senza lasciare traccia, sfasciare i polmoni o risultare letale. È appunto un acceleratore dei mutamenti sperimentati, da una quindicina d’anni, dalle Global Value Chains. «La loro riorganizzazione – nota Alessandro Terzulli, capoeconomista di Sace – ha come sottostante la riduzione della differente velocità fra la crescita globale e il commercio internazionale. Fra il 1990 e il 1999, ogni anno il Pil mondiale è cresciuto in media del 3% e il commercio internazionale è salito del 6 per cento. È stato un periodo aureo, nonostante in quel momento si siano poste le basi per un incremento delle diseguaglianze all’interno dei singoli Paesi. Fra il 2000 e il 2009, la ricchezza è aumentata in media ogni anno del 3% e il commercio è salito del 4 per cento. Fra 2010 e 2019, entrambi gli indicatori sono cresciuti del 3 per cento».
La regionalizzazione e l’Europa
«Oggi le catene globali del valore si stanno accorciando, ricompattando e riconfigurando. Questo fenomeno riguarda soprattutto l’aerospazio e la difesa, l’automotive e le filiere di approvvigionamento dei beni durevoli. Il Covid-19 è un cataclisma. L’esposizione ai cataclismi sta inducendo tutte le imprese a costruire nuovi rapporti. Le Global Value Chains si sono ridotte per lunghezza ma si sono inspessite, congegnando nuove forme di intrecci e di compattezza. E l’Europa sta trovando una nuova identità», dice Roberto Crapelli.
Crapelli è stato il numero uno di Roland Berger in Italia. Conosce bene la Germania, il fulcro dell’industria europea con le catene del valore su di essa imperniate, e la Cina, che non è più la fabbrica del mondo anche grazie alle tecnologie e alla cultura industriale assorbite proprio dalle multinazionali tedesche. Crapelli oggi è managing partner di un fondo di private equity, Quadrivio-Industry 4.0, che finora ha raccolto 200 milioni di euro e ne ha investito un terzo. «Il primo problema – riflette – è la sicurezza dell’attività industriale, nel senso della certezza e del controllo accurato dei costi e della qualità. Sicurezza significa che, con una incognita come il Covid-19, può non convenirmi approvvigionarmi in Cina, a patto peraltro che la Cina mi garantisca ancora un vantaggio di costi. Mi conviene strutturare nuovi rapporti, più condivisi, con i miei fornitori in Europa. Alcuni fornitori li posso perfino acquisire. Con tutti devo creare partnership più collaborative e strategiche. Si archivia la pratica industriale del just in time. Non si stressano più le scorte, che una volta dovevano essere basse a ogni costo. E la catena produttiva, che prima era spezzettata, cambia: ora è, tendenzialmente, formata da un numero minore di società, che però sono più strutturate».
Questo sta capitando in generale in Europa. Questo sta succedendo in particolare alla Rototech di Torino, società della famiglia Accornero specializzata in componenti in plastica – per esempio serbatoi – per i camion e le macchine movimento terra, che fattura una settantina di milioni di euro all’anno, cinquanta dei quali in Europa. «I gruppi dell’automotive industry – spiega Oreste Accornero, presidente della società – stanno riducendo il numero dei fornitori. Per questa ragione, a noi conviene accorciare la nostra, di catena della fornitura, proponendo al cliente finale un prodotto con dentro molta più tecnologia. Forniamo noi tutta la sensoristica e i componenti wireless con cui il guidatore verifica efficienza e riduzione dell’impatto ambientale del combustibile con cui sta viaggiando». Il risultato è significativo: diminuisce la frammentarietà del processo produttivo, si riduce la parcellizzazione delle catene del valore, che trovano una loro maggiore coerenza e finitezza in Europa, e chi riesce a stare in questa metamorfosi trattiene molto più valore aggiunto: «Quando forniamo il prodotto completo – riflette Accornero – il margine industriale lordo può raddoppiare».
Cina ex-fabbrica del mondo
Il Covid-19, con il sistema economico internazionale sottoposto al pericolo di lockdown intermittenti provocati da improvvisi focolai, sta catalizzando dunque la condensazione e l’aggregazione di piattaforme produttive che sembrano la proiezione, trent’anni dopo e nella deformazione di uno scenario da incubo, delle “Region” teorizzate in “Geography and Trade” da Paul Krugman nel 1992.
Esiste una razionalità economica molto forte – prima di tutto nella logistica e negli approvvigionamenti – perché l’Europa, l’Asia e il Nord America generino catene del valore sempre globali, ma con una minore estensione internazionale e dunque una maggiore caratura regionale. Ed è una razionalità che rappresenta la accelerazione parossistica di un fenomeno di lungo periodo che ha la sua origine storica nella crisi della globalizzazione e nella fine della Cina come fabbrica del mondo, nella messa in discussione della egemonia degli Stati Uniti e nella miccia accesa dei dazi. Dunque, il Covid-19 è soltanto l’ultima bomba sotto l’edificio del mondo per come lo abbiamo conosciuto. La bomba esplosa prima della pandemia è il neo-protezionismo aggressivo.
«Noi abbiamo uno stabilimento con duecento dipendenti a Pinghu, un’ora a sud di Shanghai», racconta Matteo Storchi, amministratore delegato e presidente della Comer Industries di Reggiolo, società specializzata in trasmissioni meccaniche per macchine movimento terra e per macchine agricole, che ha fatturato nel 2019 405 milioni di euro. «Là lavoriamo per il mercato cinese e produciamo le parti a più basso valore aggiunto, che poi reimportiamo in Italia. Quando sono sorti i dazi, ai nostri clienti americani abbiamo fatto un discorso chiaro: che cosa facciamo? Riportiamo l’attività in Italia? Oppure veniamo negli Stati Uniti? O rimaniamo in Cina e paghiamo il dazio condividendo il danno? I nostri clienti hanno scelto l’ultima opzione. Ci hanno spiegato che pensavano che i dazi fossero temporanei. Chissà, forse hanno anche scommesso su una vittoria il 3 novembre di Biden, che rispetto a Trump sembra avere una linea più morbida sulla Cina. O avrà pesato il lavoro di lobbying che ha ridimensionato i dazi. Fatto sta, siamo rimasti là. Anche se, da allora, abbiamo rifocalizzato la nostra strategia sull’Europa. Perché è chiaro che, ormai, la competizione non può essere sul prezzo. Ma sulla flessibilità della risposta alla domanda», spiega Storchi.
Per questa ragione, le catene della fornitura – e in generale le catene di creazione concettuale e materiale dei prodotti – debbono essere più corte. Non necessariamente più compatte. Sicuramente più controllabili, più omogenee e meno esposte ai rischi: non importa che i rischi siano concentrati sulla logistica (nel caso di una pandemia come il Coronavirus) o sul vantaggio di prezzo (nel caso dell’incognita di guerre tariffarie). «Per noi – osserva Storchi – va bene che la catena della fornitura sia frammentata. La parcellizzazione conferisce elasticità alla nostra catena del valore e permette di diluire il rischio condividendolo in tanti. Questo rimane una cifra preziosa. Ma i nostri fornitori debbono essere più vicini a noi. In Italia, o in Europa, per esempio nell’Est, o al massimo in Turchia». Oggi l’area dell’euro pesa per il 60% sui ricavi, per il 50% sul margine lordo industriale e per il 60% sulla catena della fornitura di Comer Industries. «Se l’economia internazionale cambia volto e la competizione è meno sui costi e più sulla qualità, a noi non può che andare bene», dice Storchi. Che aggiunge: «Sulla nostra catena della fornitura, oggi l’Europa vale il 60 per cento. Il nostro obiettivo è portarla, in tre anni, al 70 per cento».
L’opzione europea.
A queste condizioni, soprattutto con l’effetto drammatizzante provocato dalla pandemia su una dinamica delle catene globali del valore già in via di drastica rimodulazione, la manifattura europea torna centrale. La cancelliera tedesca Angela Merkel pochi giorni fa ha detto due cose. Due cose che rimangono valide, anzi assumono una importanza ancora maggiore, soprattutto adesso che la manifattura continentale prova a non spegnersi. La prima è che le imprese tedesche debbono diversificare la loro presenza in Asia. In qualche maniera, dunque, prospettando una distinzione rispetto al rapporto strettissimo, quasi siamese, dell’industria tedesca rispetto alla Cina, che finora è stato di assoluto privilegio (e, anche, dipendenza). La seconda cosa è che bisogna rafforzare le catene intraeuropee. Dando così un contenuto strategico “alto” alla funzione di primazia gerarchica che, in una Europa di nuovo identitariamente e politicamente manifatturiera, ha proprio la Germania.
L’inspessimento e la coagulazione delle catene intraeuropee si sta verificando da tempo. Dice Gianluca Santoni, economista del Cepii, istituto di ricerca pubblica di Parigi: «Alcuni dati profondi dimostrano una significativa dinamica di integrazione fra i sistemi produttivi nazionali europei. Si tratta di un fenomeno ormai di medio periodo. Dunque, di carattere strutturale. Che riguarda le tre grandi manifatture continentali: la Germania, la Francia e l’Italia». Il primo indicatore è rappresentato dalla quota di valore aggiunto nazionale che viene creata all’interno del sistema e dalla quota che invece viene creata dalla connessione con le catene globali del valore. In Germania, secondo le stime elaborate usando le tavole input-output di Wiod, nel 2000 il 70,8% della ricchezza nazionale manifatturiera era di matrice domestica e il 29,2% si generava nella connessione con le Global Value Chains: in quell’anno, il 14,3% del valore aggiunto industriale tedesco si produceva nell’area dell’Europa, sia quella della moneta unica sia quella del mercato unico. Quattordici anni dopo, nel 2014, l’industria tedesca si è connessa di più alle catene globali del valore (ha un segno puramente domestico il 61,5%, deriva dall’estero il 38,5%) e, allo stesso tempo, si è integrata ancora di più con il resto dell’industria europea, dell’eurozona o non dell’eurozona non importa, che vale il 18,7% della sua ricchezza industriale.
Lo stesso trend, seppur meno significativo, riguarda la Francia: nel 2000 il valore aggiunto derivato dalla connessione con le catene globali del valore era pari al 27% (14,3% l’Europa in senso allargato), nel 2014 questa quota è salita al 31,7% (16,1% lo specifico europeo). Tutto ciò – ossia una accentuazione forte della identità continentale e della sua manifattura – si osserva bene in Italia: nel 2000 il 21,5% del nostro valore aggiunto industriale proveniva dalla interconnessione con le Global Value Chains. Quattordici anni dopo, si è saliti al 32,5 per cento. In questo processo virtuoso, la generazione di valore aggiunto determinata dalla interconnessione con l’Europa (eurozona e non) è passata dall’11% al 16,5 per cento.
La catalizzazione patologica del Covid-19 è quindi un acceleratore, perché introduce una componente di rischio incontrollabile nella strategia e nella logistica delle imprese e, dunque, incrementa la convenienza di avere catene del valore e anche catene della fornitura più vicine. Ma il fenomeno sta già capitando da tempo. «Sta veramente mutando la natura europea – nota Santoni – e questo si vede bene anche sull’export dei manufatti dei beni intermedi, che mostrano il grado di connessione fra sistemi produttivi nazionali. Questa connessione, all’interno dell’Europa, è in crescita da tempo». L’export dei beni intermedi tedesco nell’intera area europea è salito dal 53,8% del 2000 al 60,3% del 2018. Per la Francia è rimasto costante: dal 62,4% al 63,1 per cento. Invece, per l’Italia è salito dal 54,4% al 59,5 per cento.
Merkel e Macron, per adesso, non hanno chiuso le fabbriche. A meno che l’emergenza sanitaria non abbia il sopravvento in maniera irreversibile, spegnere la manifattura europea significherebbe provocare una alterazione profonda nella competizione internazionale, minare la coesione sociale e introdurre una mutazione genetica tecno-industriale e cultural-identitaria in una Europa che ha nell’industria uno dei suoi elementi costitutivi e che, tornando al proprio cuore manifatturiero, ha già da tempo iniziato a riconfigurarsi, per guarire da una globalizzazione malata.