la Repubblica, 3 novembre 2020
In morte di Gigi Proietti
In fin dei conti la vera romanità è poliedrica, variabile e multiforme. Non si lascia imprigionare in quelle quattro o cinque macchiette – il bullo (poi coatto), il magnone, il tonto, il satiro, il pretino – che subito vengono in mente. Perché Roma, anche a teatro, è universale; e se c’è stato un artista che a tale sfuggente attitudine ha saputo dare volto e corpo, beh, Gigi Proietti sembrava nato per questo – e adesso che è morto si capisce come mai hanno subito proiettato la sua foto sul Campidoglio e sul Colosseo. E il paradosso è che l’apoteosi monumentale celebra una maschera – quel ciuffo, quegli occhiacci, quel nasone – che nel raccontarsi non si prendeva mai troppo sul serio, anzi con rara e sorridente umiltà sosteneva di aver esercitato l’alta sua vocazione secondo la logica del “’ndo cojo, cojo”, ossia a casaccio. Mentre in realtà dietro quel variegatissimo percorso (attore, cantante, ballerino, trasformista, doppiatore, conduttore, regista, manager e maestro di tanti), così come negli slanci, negli sguardi sbilenchi o nelle smorfie di cupa o gioiosa meraviglia, si avvertiva qualcosa di molto antico che forse solo a Roma si esprime compiutamente: il motore segreto dello scetticismo, quella sorta di sapiente e diffidente incuriosità che da secoli consente al popolo romano di giocare a buzzico rampichino con Sua Maestà il Tempo e quindi di affrontare il vuoto del presente attraverso le forme, i picchi e gli abissi della parodia.
Romano era Gigi Proietti (cognome che nel Centro Italia si dava ai trovatelli), di spiccato nomadismo: nato a Sant’Eligio, dalle parti di via Giulia, poi trasferitosi con la famiglia al Colosseo (“ma no dentro” chiariva), poi nei quartieri alti (“però sottotera”, cioè in un seminterrato), poi all’Ina Casa del Tufello, poi all’Alberone, a Cinecittà, a via dei Giubbonari, al Flaminio e alla fine, negli anni del benessere e dei riconoscimenti, in fondo alla Cassia, quasi allo sprofondo. Disse di Roma, ancora una volta misurandone la contraddittoria varietà: “Città eterna e fragile, tragica e ironica, cinica e innamorata”. Ma pur sempre unica, assoluta e di tutti, a cominciare dai morti. Con tale solenne consapevolezza, come un tributo dovuto ai Grandi, si rivolgeva alla santissima trinità dell’interpretazione romanesca: sorvegliato e bonario nel leggere le poesie di Trilussa; incuriosito, ma accorto dinanzi a Cesare Pascarella, il più difficile perché il più intellettuale; mentre rispetto al genio del Belli si permetteva variazioni e virtuosismi a nessun altro consentite, tipo spezzare il ritmo sacro del sonetto accennando a un canto (vedi su YouTube Er Miserere de la sittimana santa).
Per il resto, tutto Proietti ha fatto a Roma, moltissimo avendo dato alla sua città, dai night per militari e donne di servizio fino a impiantare un teatro shakespeariano a villa Borghese, dal riempimento dello stadio Olimpico (era assatanato della Roma) a quella sua rinomata scuola di recitazione che sta lì a dimostrare quanto gli stesse a cuore il teatro come generosa trasmissione di tecnica e di virtù. Spiritaccio, senza dubbio, però mai malevolo; comico senza nemmeno un filo di buffoneria o volgarità, a riprova che ci sono romani che sanno stare al proprio posto; lontano mille miglia dalle polemiche e dai pettegolezzi. Insomma un puro, e forse anche per questo straordinario in quei suoi monologhi di sferzante assurdità, discorsi imbrogliati apparentemente senza capo né coda nei quali però lasciava sbocciare qualche suono, aho’!, qualche gesto, qualche segno, qualche mezza parola che di colpo illuminavano le magagne della quotidianità, troppo caotica per non riderci su. Cinema, tv, radio, regia, scrittura, poesia. Ma nulla meglio del teatro, soprattutto sul versante del cabaret, della rivista, del varietà. Dal che Gigi Proietti può proclamarsi a pieno titolo e in via definitiva l’unico grande erede di Ettore Petrolini, un altro sublime interprete romano che sapeva fare il bullo, il gagà, l’intellettuale fasullo e l’imperatore in bilico tra il ridicolo e la morte. Attori che segnano le generazioni. Così la Città eterna fa un inchino e ringrazia – senza paura che qualcuno nei pressi faccia lo spiritoso.