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 2020  novembre 03 Martedì calendario

1QQAN40 QQAN50 Intervista a Lidia Bastianich

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Se le dico pane, strutto e zucchero?
«Mi viene in mente una bambina di 5-6-7 anni che aveva fame e la nonna a Busoler, non avendo altro, le preparava una sleppa di pane fatto in casa con abbondante strutto, pure quello casalingo, e un po’ di zucchero».
Se le dico una pagnotta, un litro di latte e tre banane?
«Lì sono un’adolescente e mia madre ha appena acquistato in un negozio di alimentari di Manhattan il cibo che le sembra più sostanzioso con i soldi che le ha appena dato un’assistente sociale della Catholic Charities».
E se le dico molluschi fritti, aragosta grigliata con burro fuso, filetto di carne alla griglia e una Magnum di Bastianich Vespa Bianco?
«Eh, quella è una bella cena! La organizzarono i miei figli con i miei nipoti ai Caraibi per i miei 70 anni, nel 2017. Un amico gesuita aveva celebrato messa. Fu una serata bellissima e commovente, ballammo fino a tardi con i piedi nudi sulla sabbia».
Lidia Giuliana Matticchio Bastianich indossa una camicia gialla a fiori e un rossetto in tinta con la montatura degli occhiali color lampone. Ci vediamo via Skype dalla sua casa di Douglaston con vista sulla Little Neck Bay, nel Queens, dove coltiva carote, aglio, cipolla, radicchio zuccherino, rosmarino, alloro, altre erbe aromatiche e dove si contende i fichi con gli scoiattoli del giardino. Sta per preparare il brodo che distribuirà agli amici della mamma Erminia, 99 anni, per la quale cucina a colazione, pranzo e cena: «Per lei faccio i cibi nostalgia, polenta, verza... Non sente bene, vede poco e fa le parole crociate con una lente che le abbiamo regalato, però il gusto è rimasto intatto. Solo quando sono diventata mamma anch’io ho capito davvero che cosa avevano fatto per me e mio fratello i nostri genitori».
La chef italo americana, imperatrice della ristorazione d’Oltreoceano, allude alla fuga dall’Istria di Tito per cercare riparo a Trieste, dove la famiglia Bastianich – la madre era insegnante e il papà Vittorio titolare di una piccola ditta di autotrasporti – restarono per due anni nel campo profughi di San Sabba, da cui poi riuscirono a farsi accogliere negli Usa. «Abbandonarono tutto per garantirci un futuro. Con il mio successo forse ho voluto dimostrare che avevano fatto la scelta giusta».
Nel memoir «Il mio sogno americano», che esce il 5 novembre per Solferino, spiega che il successo è frutto degli sforzi di tutta la famiglia.
«Sì, non è un viaggio solitario, il mio. Ognuno ha fatto la sua parte: mia madre che si occupava dei bambini, mio padre che ha carteggiato le sedie del Felidia (il ristorante che lei e il marito Felice aprirono a Manhattan nel 1981 dopo le fortunate esperienze del Buonavia e del Villa Secondo, entrambi nel Queens, ndr) fino a poco prima di morire, mio figlio Joe che dodicenne lavorava in un negozio di bagel al mattino presto e consegnava i giornali in bici per darci un po’ di supporto...».
Nella sua storia personale contano tanto le donne: sua madre, naturalmente; nonna Rosa, con cui bambina faceva la spesa con il carretto a Busoler; zia Nina, che le insegnò a pulire i fagiani; suor Lidia, che a Trieste la introdusse nella cucina della scuola; zia Olga in Pennsylvania, con cui infornò tante torte benefiche.
«La donna è sempre stata il fulcro della famiglia. Anche io ho cercato di tenere insieme i miei cari a tavola».
Quando partorì Tanya, nel ‘72, lavorò fino al giorno prima.
«Fu una necessità, mi sentivo responsabile di ciò che stavamo costruendo con mio marito».
Mai temuto di trascurare i figli?
«No, e proprio per evitarlo ho cercato di coinvolgerli da subito. Oggi un genitore cambia tutto quando nasce un figlio, ma sono i figli a entrare nelle nostre vite e io volevo continuare a fare quello che mi piaceva».
Nel 1997 divorziò da suo marito, dopo 31 anni di matrimonio. Pensa sia stato il lavoro ad allontanarvi?
«Io avevo tanta voglia di crescere, lui a un certo punto voleva fermarsi. Sì, forse i nostri obiettivi non erano più gli stessi. Ma siamo sempre rimasti in buoni rapporti, fino alla sua scomparsa è venuto da noi per ogni festività».

Ha cinque nipoti. C’è qualcuno che vuole seguire la tradizione di famiglia?
«Ah, loro vengono tutti volentieri in cucina, partecipano anche al mio show, Lidia’s Kitchen, sulla Pbs. Ogni tanto mi chiamano per chiedermi una ricetta: la caffetteria dell’università non è un granché e saper fare un buon piatto di spaghetti porta tanti amici».
Si sente più italiana o più americana?
«Dall’Italia ho preso la sensibilità per la famiglia, l’amore per il cibo, per l’arte e la natura. Dall’America la capacità di fare business plan, marketing, gestire un’impresa».
Ha cucinato per papa Ratzinger e Bergoglio, per Napolitano e Mattarella, per Sophia Loren e altri grandi. Chi altro le piacerebbe?
«Il mio sogno è arrivare a cucinare una buona minestra semplice, ma nutriente, per i bambini del Terzo Mondo. Ho fatto ricerche, si può fare con i loro ingredienti. Ma finché c’è mamma devo occuparmi di lei».