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 2020  novembre 03 Martedì calendario

Aspettando Cormac McCarthy

Lo sappiamo da molto tempo ormai: Cormac McCarthy sta lavorando al suo ultimo libro, «The Passenger, di cui si conoscono in misura ridotta lo scenario (New Orleans), la trama e i personaggi principali (la storia di un fratello e una sorella). I mccarthisti di ferro si sfregano le mani almeno dal 2013, i polpastrelli cominciano a emettere scintille. Ma le rassicurazioni arrivano dal Sante Fe Institute – istituzione scientifica nel cuore del New Mexico, della quale McCarthy è socio e fiduciario —, nella persona di Tim Taylor che sottolinea come «tutte le sue energie siano orientate alla conclusione del romanzo» (cito, con il beneplacito del gentilissimo Tim, da una mail personale). Meno nota è la straordinaria fioritura di interventi critici sorta attorno allo scrittore classe ’33 originario di Providence, interventi che assumono la vastità, il cesello e l’ariosità del monumento aere perennius, più duraturo del bronzo. Tra i quattro dell’Apocalisse del romanzo americano contemporaneo additati da Harold Bloom (con Philip Roth, Thomas Pynchon e Don DeLillo), McCarthy è quello che forse più si presta a una lettura interdisciplinare: filosofia, religione, fisica, scienze cognitive, linguistica – non si dimentichi il suo unico saggio, uscito nel 2017 sulla rivista «Nautilus», The Kekulé Problem con il sottotitolo «Da dove viene il linguaggio?» —, un allucciolio intertestuale che fa galoppare accademici e interpreti verso la corsa all’oro citazionistico nel periglioso West della pagina, quasi con la stessa febbrilità e spericolatezza del giovane Twain nelle avventure di In cerca di guai.
Anche in Italia stiamo assistendo a una simile attenzione ermeneutica, tanto significativa quanto assestata su considerazioni across the border: di quest’anno è l’ottimo Cormac McCarthy: saggi a margini del canone (QuiEdit) di Marco Petrelli e Giulio Segato, rivolto alle opere cosiddette minori, agilmente riconducibili ai motivi essenziali del romanziere Premio Pulitzer («Ecco perché abbiamo concentrato la nostra analisi sulle opere più marginali di Cormac McCarthy: due racconti inediti, A Drowning Incident e Wake for Susan, gli unici due testi drammatici, The Stonemason e The Sunset Limited, e la prima sceneggiatura originale, The Gardener’s Son»). Nelle cinquantadue pagine di «bibliografia scelta in inglese» i curatori non hanno potuto inserire, per questioni temporali, l’ultimo affresco analitico dedicato all’autore di La strada: l’imponente Cormac McCarthy in Context (Cambridge University Press), a cura di Steven Frye, professore alla California State University di Bakersfield e presidente della Cormac McCarthy Society, struttura parauniversitaria nata nel 1995 che organizza convegni internazionali e seminari con cadenza regolare. Cormac McCarthy in Context è una raccolta di saggi approntati da eminenti studiosi di scuola anglofona, suddivisa in cinque parti: si inizia con gli «ambienti» (Environments) che fanno da sfondo a molti romanzi, dal Sud di Flannery O’Connor – quel Tennessee squamoso che tinteggia Suttree, per intenderci – al canicolare Sud-ovest, «regione politicamente densa e geograficamente distintiva». La seconda parte si interroga sui «contesti letterari» (Literary Contexts: Sources, Influences, Allusions), dando largo spazio alla presenza sfiaccolante di William Faulkner, Ernest Hemingway, Herman Melville, romanticismo, naturalismo, sacre scritture, allusione e allegoria. In particolare, Alan Noble mette in chiaro come McCarthy, usufruendo di una riconoscibile «dizione biblica», ne adoperi la cadenza «per elevare immagini o idee a una sorta di significato cosmico». È la sintassi paratattica mutuata dalla Bibbia di Re Giacomo a conferire l’aspetto di «biblical gravity» alla prosa mccarthiana, come intuì Richard Woodward. Quest’ultimo articolo del secondo blocco si collega alla terza parte, Intellectual Contexts, la quale indaga i fermenti dalla tradizione giudaico-cristiana, dalla scienza e dalla filosofia classica e contemporanea. James Dorson si focalizza, infatti, sul «misticismo cristiano» che informa tutta la poiesis di McCarthy, sin dagli esordi, capace di «produrre un senso di mistero nel mondo disincantato della modernità» (non si dimentichi che il piccolo Cormac, proveniente da una famiglia cattolica di origine irlandese, era stato chierichetto nella chiesa dell’Immacolata Concezione di Knoxville). Benjamin West si addentra nell’intricato problema della «rappresentazione dell’autorità religiosa» secondo la gnosi – a partire dalla scoperta dei codici di Nag Hammadi —, chiamando in causa i tre mantra principali di McCarthy (male, violenza e sofferenza) e lasciando tralucere «la natura dell’anima divina nel mondo materiale» in testi come Il guardiano del frutteto e Meridiano di sangue.
La quarta tranche espone le influenze socioculturali (Social and Cultural Contexts) con una gittata ad ampio raggio: la politica americana – sono sorprendenti i contatti con la guerra in Vietnam, messi in rilievo per altro anche da Petrelli e Segato —, le differenze di razza e cultura, l’ecologia (filtrata dalla narrazione dell’ecocriticism), il modernismo, l’arte visiva, gli adattamenti cinematografici. Dallo spicchio finale, il quinto (Archives, Critical History, Translation), emergono invece notazioni di filologia e critica testuale, ossia i preziosi archivi degli anni in cui lo scrittore visse in Tennessee e in Texas, le lettere e la corrispondenza privata, le traduzioni e la ricezione negli altri Paesi.
Il volume aspira a essere una bussola nei sentieri d’orizzonte e nella cosmologia interpretativa mccarthiana. Erigendo numerosi piani di complessità e interstizi infraculturali, ricorda persino che gli invisibili legami tra l’ottusa malvagità di Anton Chigurh (gemello del dostoevskiano Pëtr Verchovenskij) e la sofisticata stregoneria del giudice Holden (terribile e maliardo come Stavrogin) sono soltanto l’altra faccia, già vinta, già sepolta, della dolce rassegnazione di Ed Tom Bell e del candore mistico del bambino di La strada. Nella speranza che ci sorprenda di nuovo «la bontà». Perché «è sempre stato così. E lo sarà ancora».