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 2020  novembre 03 Martedì calendario

La battaglia di Bobby Charlton contro la demenza

In questo orrendo 2020, segnato dalla pandemia e che ha portato via in poche ore, per cause diverse, giganti come Sean Connery e Gigi Proietti, il calcio made in England è stato scosso domenica dalla notizia che a Bobby Charlton, icona della nazionale campione del Mondo 1966, 83 anni, dal 1984 componente del consiglio di amministrazione del Manchester United, è stata diagnosticata la demenza. La news è stata pubblicata dal Daily Telegraph. Poco dopo è arrivata la conferma da parte della moglie Norma.

Icona nazionale
Il 10 luglio scorso è scomparso il fratello maggiore di Sir Bobby, l’ex difensore Jack Charlton, l’uomo che ha segnato la storia del football irlandese, con i «verdi» guidati prima agli Europei 1988, poi ai Mondiali 1990 e 1994. La causa del decesso di Jack è stata la demenza, un male che ha portato via altri 5 giocatori dell’Inghilterra 1966: il portiere Peter Bonetti, i difensori Ray Wilson e Gerald Byrne, i centrocampisti Martin Peters e Nobby Stiles, quest’ultimo morto venerdì scorso. Ora questa patologia ha colpito Bobby Charlton, che di quella nazionale fu la star. Il libero Bobby Moore, vittima del cancro nel 1993, fu il capitano. Il centravanti Geoff Hurst firmò una tripletta nella finale vinta 4-2 ai supplementari con la Germania. Ma Charlton fu l’anima della squadra, la stella solida, la chiave del gioco di Alf Ramsey, capace di oscurare nella semifinale col Portogallo un talento come Eusebio. In quel 1966 Charlton trionfò nella classifica del Pallone d’oro. Due anni dopo, nel 1968, trascinò il suo United alla conquista della Coppa dei Campioni.

Anti-beat
Le foto di quel 1966 tramandano un Bobby Charlton con la maglia rossa e i capelli lunghi. Erano gli anni dei Beatles, dell’Inghilterra che attraverso la beat generation stava sconvolgendo il mondo, in particolare musica e moda, ma il riporto di Sir Bobby non era un omaggio alla trasgressione, ma, semplicemente, un’illusione per nascondere la calvizie incipiente. Sopravvissuto al disastro aereo di Monaco del 6 febbraio 1958, in cui morirono 23 persone tra calciatori del Manchester United e giornalisti che tornavano a casa dopo una trasferta di Coppa dei Campioni a Belgrado – in Germania si fece scalo per il rifornimento del carburante -, è stato profondamente segnato da quella tragedia. Rispetto a Jack, uomo che amava il pub, la convivialità e si lasciò contaminare dallo spirito irlandese, Bobby è sempre stato più riservato, meno incline al sorriso, più istituzionale. Più ingessato, forse. Negli anni della beat generation e di George Best, compagno di squadra del Manchester United, Bobby Charlton rappresentò la normalità borghese. Con Best non ci fu mai sintonia: troppo diversi i due per piacersi e, soprattutto, capirsi. Anche tra fratelli, i rapporti non sono stati sereni. Jack accusò Bobby di pensare troppo agli affari proprio nei mesi della malattia della madre. I due non si parlarono per anni.

Grandi numeri
Il calciatore non si può però discutere. Il curriculum è gigantesco: 758 gare e 249 gol con il Manchester United dal 1956 al 1973, 106 presenze e 49 reti in nazionale, tre campionati, una FA Cup, quattro Charity Shield e, soprattutto, il titolo mondiale del 1966. Presenza assidua all’Old Trafford fino a pochi mesi fa, unico rappresentante dello United che poteva confrontarsi con un totem come Alex Ferguson, Sir Bobby, dopo l’outing del 2007, in cui svelò il lungo dissidio con Jack, ha mostrato un volto più umano, meno ombroso. Manchester lo ha adottato come un figlio, concedendogli le chiavi della città e nominandolo presidente onorario del museo del calcio: «Non riesco a immaginare un’istituzione simile in nessun posto al mondo».

Potenza
Sir Bobby è sempre stato l’«altro» rispetto all’estro di George Best e Eric Cantona. Il suo calcio era un colpo di frusta. Precursore di quella razza un po’ attaccante e un po’ mezzala, tiro fulminante, copertura del campo coast to coast, la potenza dei suoi gol non ha mai posseduto la poesia di Best, ma Charlton non ha sprecato un grammo della carriera. Immaginarlo oggi, perso nella sua fragilità, come il grandissimo tedesco Gerd Muller che ai Mondiali del 1970 mise la parola fina all’epopea di quell’Inghilterra, è un altro colpo basso di questo orribile 2020.