il Fatto Quotidiano, 2 novembre 2020
QQAN20 QQAN93 Moravia in America
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Mi è capitato abbastanza spesso, durante il mio periodo di vita americana, di essere con Moravia (e, a quel tempo sempre con Dacia Maraini, che cominciava a essere conosciuta come “la più giovane scrittrice italiana tradotta a New York”).
Ricordo tre occasioni tipiche, tutte quasi inevitabili, ogni volta che si sapeva della presenza negli Usa dello scrittore italiano più noto nel mondo. La prima era la lezione universitaria nell’area di New York, quasi sempre alla Columbia University, ma con insistenti inviti anche da Princeton o Yale. La seconda era l’invito in case private, di solito aperte alle grande occasioni politiche, ma decise ad avere Moravia per il loro pubblico di amici e frequentatori (Bernstein, Jean Stein). La terza era intorno a una tavola di gruppi più limitati (professionali e competenti).
Il pubblico dello scrittore aumentava di anno in anno, e nelle università diventava un evento. Cresceva l’attenzione su Moravia, proprio mentre compariva in luoghi particolarmente orgogliosi di se stessi e dei propri simboli. Le visite di Moravia avrebbero dovuto essere un fatto interessante ma non straordinario: lui, però, portava come un’uniforme, un’autorevolezza, sentita e riconosciuta come un titolo che non aveva. Ricordo, al suo ingresso, l’abbassarsi delle voci, che diventavano brusio. Incuriosiva questa forma di conoscenza-riconoscenza; perché a New York Moravia era tradotto, bene e sempre, ma non era una star. Eppure aveva quell’aura, percepita dagli intenditori sociali del riunirsi per uno scrittore, che non derivava solo dal trionfo letterario: il suo valore di scrittore era fermamente riconosciuto dalle fonti che contano (che contavano allora) ma importava molto più quel che aveva da dire su America e Italia un uomo imbronciato e deciso come Moravia (frasi brevi, prive di sfumature) che parla mentre sta attraversando la Storia.
Ciò che scrivo si deve solo in parte alla mia esperienza di testimone presente. Molto di più è frutto della lettura di un libro curato da Alessandra Grandelis, esploratrice della vita e delle opere di Alberto Moravia, dotata di una scrittura che trattiene il lettore (L’America degli estremi, un reportage lungo trent’anni, 1936-1969). In questo volume c’è tutto il Moravia che ho conosciuto negli anni ’50-’60, e mi rendo conto che la curatrice gli restituisce alcuni tratti che in librerie e archivi erano andati perduti.
Per esempio il suo rapporto con le immagini: come critico cinematografico era tra i più acuti; il legame con la pittura italiana della scuola romana (Mafai, Raphael, Scipione, Trombadori); ovvero un andare al punto (un cielo è un cielo, un tetto è un tetto) senza allargare il senso delle cose e senza il bello non necessario. La frase di Moravia utilizzata nel libro come sigla di riconoscimento è di gran lunga la più limpida, la più adatta a identificare e ritrovare il suo autore: “L’aspetto più importante dell’America è il suo futuro”.