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 2020  novembre 02 Lunedì calendario

Persi 50 miliardi di esportazioni

Il Covid cancella 11 anni di successi del made in Italy. A inizio 2020, quando il coronavirus era appena sbarcato nel nostro Paese, le esportazioni tricolori veleggiavano a un +6,4% rispetto all’anno precedente. Poi il mondo si è capovolto: lockdown, trasporti aerei fermi, molti Paesi hanno chiuso le loro frontiere. E l’export, il vero motore che da tempo puntella il nostro Pil, è andato ko. Nei primi otto mesi dell’anno il valore delle nostre merci vendute oltrefrontiera è crollato del 13,1%. La pandemia non ha risparmiato quasi nessuno. Anzi, ha colpito più duro proprio i fiori all’occhiello della nostra produzione: le esportazioni di moda e tessile sono in calo a fine agosto del 22,4%. La meccanica, uno dei gioielli della nostra industria, è al palo. “Con tutte le restrizioni agli spostamenti non riusciamo nemmeno a mandare i nostri tecnici in giro per il mondo a impiantare o seguire i lavori”, dice sconsolato Marco Nocivelli, presidente di Anima Confindustria Meccanica.
Il saldo del settore a fine agosto è un magrissimo – 17,3%. Piange la pelletteria (-24,3%), faticano a riprendersi i mobili e l’arredamento (-16,8% malgrado una ripresina post-lockdown). E gli unici due settori dove il barometro è rimasto sul bel tempo sono la farmaceutica – per ovvie ragioni – con un +8,6% e l’alimentare che a fine agosto segnava un buon + 3%. Questo bollettino di guerra – complice il deterioramento della crisi sanitaria di queste settimane – rischia di accompagnarci ancora per un bel po’ di tempo: l’export tricolore – prevede il rapporto 2020 della Sace – chiuderà quest’anno con un volume di vendite di 422 miliardi, quasi 50 meno dell’anno scorso. “E solo nel 2021, calcolando una seconda ondata che non faccia troppi danni all’economia, tornerà ai livelli del 2019 – dice Alessandro Terzulli, capo economista di Sace – perdendo comunque 45 miliardi rispetto alle previsioni pre-Covid”.
Quasi un terzo del Pil
La vera sfida per salvare il made in Italy, comunque, inizia ora. La partita è fondamentale per il Belpaese. L’export, parlano i numeri, è stato negli ultimi dieci anni il vero salvagente dell’Italia: nel 2009 – dati Ice – valeva il 24,9% del Pil, lo scorso anno il 31,7%. E in un’era di consumi interni stagnanti resta, malgrado lo stop nella pandemia (e grazie all’occasione unica dei soldi del Recovery fund), l’unico jolly che abbiamo in mano per ripartire dopo il coronavirus.
Il quadro del mercato, come ovvio, è cambiato. Il lockdown – vedi il caso delle mascherine – ha dimostrato che una catena del valore dei beni fondata solo sull’efficienza e sui risparmi non garantisce sempre il massimo per la sicurezza dei cittadini. “Penso quindi che assisteremo a una sorta di regionalizzazione degli scambi con un aumento, per quello che ci riguarda, di quelli interni alla Ue – dice Fabrizio Guelpa, responsabile industry di IntesaSanPaolo – Un fattore che potrebbe favorire le 100mila piccole imprese italiane per cui raggiungere i mercati europei è molto più semplice”. La ripresa, questo è certo, non sarà uguale per tutti. “Nel settore della meccanica vanno bene i produttori collegati alla filiera di alimentare e farmaceutica mentre quelli legati alla ristorazione e ai bar soffrono e le società di servizi per il petrolifero vedranno la vera crisi l’anno prossimo”, dice Nocivelli. L’alimentare – dazi permettendo – è tra i settori con maggiori margini di crescita. “Dei 150 distretti che seguiamo solo 30 hanno esportato di più quest’anno e 29 fanno parte di questo comparto”, spiega Guelpa. “E le opportunità per noi sono ancora molte – è sicuro Luigi Scordamaglia consigliere delegato di Filiera Italia – visto che le vendite di imitazioni di cibo made in Italy in giro per il mondo valgono 100 miliardi contro i 42 miliardi di vendite all’estero dei nostri prodotti originali”.
La sfida del digitale
La radiografia del rapporto Sace traccia una prima fotografia delle prospettive per il breve termine. Tessile, abbigliamento e meccanica dovrebbero continuare a soffrire anche nel 2021, rimanendo sotto di 5 miliardi al livello del 2019. Chimica e alimentare invece dovrebbero andare meglio. “La gomma e gli apparecchi elettrici ripartiranno bene grazie al settore costruzioni sostenuto dagli investimenti infrastrutturali – dice Terzulli – Anche per l’arredamento e i mobili ci sono prospettive positive grazie al ripensamento degli spazi nelle abitazioni legati allo smart working. La moda invece avrà una riprese più rallentata, anche se nel lungo periodo, con il ritorno a capi di qualità, l’Italia avrà molto da offrire”.
La grande occasione per aiutare le esportazioni del made in Italy, ovviamente, è il Recovery fund. Anche per le Pmi che rappresentano il 50% delle nostre vendite all’estero (contro il 20% di Germania e Francia). “Il nostro export ha raggiunto risultati importanti malgrado la scarsa digitalizzazione delle imprese – conferma Guelpa – Se colmiamo questo gap grazie alle risorse della Ue le cose potrebbero migliorare ancora. Oltretutto tra chimica verde e alimentare biologico abbiamo una presenza importante anche nel mondo del “green” dove andrà il 37% dei fondi europei”. “Il tema della sostenibilità sarà importante anche per il rilancio della moda – spiega Terzulli – rilanciando un made in Italy che per tracciabilità e qualità ha pochi rivali”. Una partita in cui anche il progetto Industria 4.0 avrà un ruolo importante. Resta da risolvere, ovviamente, il problema dell’"ultimo miglio”, quello della consegna al cliente finale dei prodotti. Lo scoglio su cui si sono arenate molte delle ambizioni di crescita all’estero delle pmi italiane, spesso troppo piccole per avere una vera leva negoziale con i grandi marketplace dell’e-commerce.
La pandemia – Amazon docet – ha rivoluzionato i modelli di consumi in senso digitale. Ma forse anche in Italia qualcosa sta iniziando a muoversi. “Nell’alimentare ad esempio il 50% delle esportazioni è fatto oggi dallo 0,5% delle grandi imprese – dice Scordamaglia – L’ultimo piano per il made in Italy ha lanciato però la figura del temporary manager che affianca per qualche tempo i vertici delle piccole imprese per aiutarle a guardare oltrefrontiera. E dopo qualche diffidenza iniziale, il sistema ha iniziato a funzionare”. Una parte significativa in questa sfida la sta giocando anche lo Stato, conscio del fatto che sull’export si gioca in buona parte il futuro della nostra economia. Ice, Sace e Simest hanno ben presenti quali sono i nodi da sciogliere. “E i negoziati con grandi piattaforme con Alibaba per aprire vetrine della nostra produzione sui loro siti, disponibili anche alle realtà più piccole, sono un passo importante”, dice Terzulli. Anche se oggi, ovviamente, l’importante è riuscire a dribblare la seconda fase della pandemia senza troppi danni. Altrimenti i conti dell’export tricolore saranno tutti da rifare.