Tuttolibri, 31 ottobre 2020
22QQAFM10 Intervista a Mark Haddon - su "La Focena" (Einaudi)
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Da certe storie è difficile uscire senza perdersi, circostanza che si verifica di solito con quella speciale tipologia di racconti che, esistendo da sempre, ci hanno insegnato a chiamare «miti». È in questa materia ineffabile e magmatica che si cimenta Mark Haddon nel suo nuovo romanzo La Focena - e a quelli che «bello! l’autore dello Strano caso del cane ucciso a mezzanotte» un avvertimento: siete sulla rotaia sbagliata.
La storia inizia con un incidente aereo ai tempi odierni durante il quale una donna incinta muore, ma riesce comunque, incredibilmente, a dare alla luce Angelica, che viene cresciuta dal facoltosissimo padre Philippe in un isolamento iperprotettivo che si trasforma in rapporto incestuoso. Quando un elemento esterno, l’aitante ragazzotto Darius, arriva a smuovere tale perverso equilibrio, l’adolescente Angelica se ne invaghisce e fantastica di fuggire con lui. Le cose però precipitano: Philippe ferisce Darius, lui scappa e la povera ragazza resta non salvata.
È in quel punto esatto, però, che il convoglio deraglia. Perché La Focena è in realtà una riscrittura della riscrittura del mito latino di Apollonio re di Tiro raccontato da Shakespeare nel dramma Pericle, principe di Tiro, un romance minore, e parecchio sgangherato, che il Bardo aveva buttato giù a quattro mani con un certo George Wilkins di scarso talento.
Così, la triste storia di Angelica sfocia nelle fantasiose (e parimenti sgangherate) avventure di Darius-Pericle, che si imbarca sulla Focena, una bella goletta a tre alberi, percorre i mari, combatte, si sposa con una donna, Chloe, che muore (ma per finta) di parto, sfugge ai nemici e così via. Un caleidoscopio a cui aggiungono ulteriori filoni: le vicende di Marina, la figlia di Chloe che cresce bellissima e invidiata, e viene rapita ma si salva e rincontra la madre, e quelle dello stesso Bardo che appare come emissario dell’aldilà al collega Wilkins. Difficile dire, in un tale labirinto di eventi, cosa è reale e cosa no, o meglio, forse, chi stia sognando chi.
Quello di Haddon è un romanzo fuori dagli schemi, un continuo ricalibrarsi tra mondo epico e contemporaneo nel tentativo di tornare all’origine delle storie stesse, quando sono poco più che parole abbozzate e adattabili a qualsiasi epoca. Come a dire: tutto accade, è accaduto e accadrà sempre e ovunque. Con un importante scarto, che era anche l’intento maggiore di Haddon: provare a ridare una voce a chi, nel dramma shakesperiano, voce non ha, ovvero le donne, relegate dalla Storia a una manciata di versi e che, invece, qui ritrovano tutta la loro dignità. In una specie di rivincita o, dipende da dove la si voglia guardare, di vendetta.
Intervista a Mark Haddon
Mark Haddon è uno che ci tiene a piacere agli altri. «Sono estremamente diplomatico. Con un amico lo chiamiamo “l’imperativo del decoro”, per noi è uno dei principi più importanti. In effetti, però, i miei libri vanno in un’altra direzione». La Focena, il nuovo romanzo dell’autore di Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte (la storia di un ragazzino con la sindrome di Asperger che si apriva con un cane trafitto da un forcone), è la storia, spregevole, di Angelica, una figlia abusata dal padre, che Haddon fa ondivagare tra un presente sospeso e un passato mitico, nel solco della riscrittura di un mito latino a sua volta raccontato da William Shakespeare nel dramma Pericle, principe di Tiro. Dopo avere debuttato, negli anni ’80, come autore e illustratore per bambini, dopo il successo dello Strano caso (il suo primo romanzo anche per adulti, oltre 10 milioni di copie vendute, una versione teatrale costantemente sold out e un film in produzione) ha deciso che non sarebbe più tornato alla letteratura per l’infanzia. Da allora, ha pubblicato altri cinque opere, compreso il fumetto Social Distance uscito online a maggio. Haddon, che ha 58 anni, non ha mai smesso di creare arte: da Oxford, dove abita, mi mostra alcuni dipinti e sculture astratti e molto colorati. «Qualcuno l’ho anche venduto», mi dice, «ma vado decisamente più forte coi libri».
Che cosa ha trovato di così urgente nel Pericle da costruirci su un romanzo?
«Qualche anno, fa la Hogarth Press aveva chiesto a me e ad altri scrittori, tra cui Margaret Atwood e Jeanette Winterson, di riscrivere un’opera di Shakespeare, ma allora non mi ero sentito abbastanza sicuro per farlo. Evidentemente quell’idea mi era rimasta in qualche angolo della mente ed è riemersa quando ho riletto il Pericle. Oltre a non essere un buon dramma – di solito Shakespeare è un autore citabilissimo, mentre di quel dramma al massimo si potevano salvare un paio di versi -, ad avere una trama contorta, antica e irrealistica, ho pensato che ci fossero buchi che dovevano essere colmati».
Quali?
«Il fatto che le donne, i loro punti di vista, restassero invisibili e che venissero usate dagli uomini per i loro scopi».
La storia ruota attorno alla relazione padre-figlia. In tutto questo, che ruolo ha il patriarcato?
«Il rapporto tra Angelica e il padre è un esempio, anche se estremo, dell’abuso di potere. A interessarmi era soprattutto il lato psicologico e l’effetto sulle vittime. Il fatto che si possa leggere in chiave politica è una conseguenza: la politica riguarda astrazioni e io, come romanziere, preferisco scrivere di persone piuttosto che di idee».
Lei ha detto che, nel testo di Shakespeare, alla parola «incesto» dovrebbe essere sostituita «stupro». Perché?
«La parola incesto non implica un’accezione morale, descrive soltanto una relazione sessuale tra due persone della stessa famiglia, mentre chiaramente qui si tratta di abuso e violenza. A volte consideriamo “pittoreschi” alcuni atti terribili raccontati dalla letteratura antica solo perché sono ricoperti da quella bella patina antica. Dobbiamo invece ricordarci che, anche in quei casi, si tratta di esseri umani che fanno e subiscono cose tremende. Le faccio un esempio: quando andiamo al museo, non facciamo quasi caso al fatto che sui muri sono esposte quasi solamente donne nude. Se vedessimo quelle stesse rappresentazioni in un centro commerciale reagiremmo in modo molto diverso. Spesso la cultura normalizza cosa che non dovrebbero essere normalizzate».
Prima di scrivere «La Focena», lei stava cercando un modo per raccontare le vite di altre persone senza appropriarsene culturalmente. È per questo che è ricorso al mito?
«In parte al mito e in parte alla Storia, o meglio a quella che possiamo chiamare la “versione shakespeariana” della Storia, dove nello stesso racconto possiamo trovare re romani e Galli. Ho pensato che prendendo cose che accadono anche ora e mettendole dentro a quel mondo mi avrebbe dato maggiore libertà per parlarne».
Pensa che quello dell’appropriazione culturale sia un problema di cui gli scrittori debbano preoccuparsi?
«Sì. Chi nega l’importanza di questo principio lo fa perché pensa che gli stiano imponendo delle regole su “cosa” debba scrivere. Ma non si tratta di questo: quando un testo racconta la storia di chi non ha avuto la possibilità di raccontarla, e lo fa senza sforzarsi di provare a restituire una “voce” a quella persona, ecco, quella è una cosa sbagliata».
La mitologia e la scienza, che parte hanno avuto nella sua formazione?
«Se cresci in una casa dove non ci sono molti libri, è più facile studiare la scienza che la storia o la letteratura. La scienza per me è stata un primissimo modo per mettere alla prova la mia immaginazione, almeno fino ai 15 anni quando ho iniziato a leggere altro. L’interesse per il mito classico, invece, si è manifestato verso i 30 perché volevo mettermi alla pari con alcuni amici che conoscevano una o due lingue straniere. Mi sono messo a studiare il greco e il latino da solo, e questo mi ha permesso di accedere alle storie che sono alla base della cultura occidentale».
Come si è approcciato al personaggio di una ragazzina abusata?
«Ho lavorato soprattutto sulla credibilità della sua storia. Nell’originale era tutto abbastanza inverosimile, in particolare il fatto che una volta scoperto lo stupro Darius-Pericle fosse scappato lasciandola sola. Così, ho trasformato tutto in modo che sembrasse una sua fantasia, un modo per riuscire ad accettare il fatto di essere stata abbandonata. Il fatto di creare due mondi, uno reale e uno “altro”, mi ha ridato il senso di tutta la storia. Da bambini, il fatto che esista questo altro mondo, con delle porte che ci permettono di entrarvi, ci è molto chiaro. Anche da adulti, però, a qualche livello continuiamo a pensarlo».
Perché nessuno salva Angelica?
«Chi può davvero salvare chi? Sarebbe stato irrealistico. Mi interessa molto di più come gli esseri umani riescono a fare i conti con certe situazioni orribili. Questo l’ho capito facendo volontariato, ascoltando e parlando con moltissime persone alle quali erano successe cose al limite della sopportazione».
Qualcuno si è lamentato che nella «Focena» c’è troppa violenza. Come risponde?
«Che esistono due standard. Uno per la letteratura di genere, come il crime o il thriller, dove è ammessa anche la violenza più estrema – pensi a Uomini che odiano le donne, che a mio parere è un “torture porn”, ma che, poiché è etichettato come detective story, è considerato una lettura per ogni età. Dall’altra parte c’è il romanzo letterario, che i critici vorrebbero una lettura rassicurante».
È nota la sua paura di volare, eppure questo romanzo inizia con uno spaventoso incidente aereo. Come mai?
«Per tre motivi. Primo, catturare l’attenzione del lettore. Poi, perché mi sono ispirato al film argentino Storie pazzesche, sette storie di vendetta legate tra loro di cui la prima, che parla di un incidente aereo, ha una delle più belle battute finali di sempre. Infine, perché ho pensato: se c’è qualcosa che ti spaventa falla, o almeno scrivila, non distogliere lo sguardo».
Con la pandemia, siamo tutti costretti a volare pochissimo. La rincuora?
«Per la mia generazione, viaggiare per diventare cittadini del mondo è considerato un rito di passaggio importante. Io non l’ho mai fatto, e anche se mi sono sempre detto che è più giusto da un punto di vista ecologico, segretamente me ne sono sempre vergognato. Ora, egoisticamente, penso: “Vedete? Siete tutti nella mia stessa situazione!”».
Ha mai pensato di scrivere un seguito dello «Strano caso»?
«No. Non funzionerebbe».
Quanto le ha cambiato la vita quel libro?
«Mi ha fatto guadagnare dei soldi e mi ha dato la libertà di potere buttare via un sacco di roba che scrivo e non mi piace. Su un altro piano, però, a volte penso che questa libertà io non l’avrei voluta, perché così sarei stato costretto a scrivere di più. Spesso, anzi, cerco di dimenticarmi di averlo scritto. Qualche tempo fa mi ero ripromesso di non fare più nessun evento legato a quel libro, che mi aveva occupato la testa per dieci anni senza lasciare più spazio per altro».
E come è andata?
«La luce e lo spazio sono ritornati».