Il Sole 24 Ore, 1 novembre 2020
1QQAN40 L’espulsione dal Senato di Massimo Bontempelli
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Strano paese, il nostro. Nel dopoguerra, incapace a lungo di fare i conti con lo scomodo periodo fascista, vara un lasciapassare generalizzato per chiunque abbia collaborato con il regime non in posizione apicale, ma poi è pronto a meschine vendette trasversali, che alle vittime paiono ogni volta ingiustizie somme. Vicende spesso minori, ma dolorose, ognuna delle quali, se guardata col senno del poi, diviene un piccolo specchio dell’Italia che fu, con i suoi compromessi e le contraddizioni. Esemplare, per esempio, l’espulsione dal Senato di Massimo Bontempelli, deliberata nel 1950, che riassume tanti temi più grandi, fino a diventare, come suggerisce Paolo Aquilanti in un suo rapido libro pubblicato ora da Sellerio, «una storia italiana».
Bontempelli era scrittore eccellente, inventore della formula del “realismo magico”, che gli aveva suggerito romanzi, racconti e opere teatrali anche molto buoni. Nondimeno, era stato fascista, fascistissimo. Segretario del sindacato fascista degli scrittori, accademico d’Italia fino al 25 luglio del 1943, autore di più di una prosa in cui l’adesione formale al regime era diventata assai simile all’esaltazione. D’altronde il suo consenso al fascismo, notava già nel 1926 Luigi Freddi sul «Popolo d’Italia», era stato “appassionato”. Ma l’uomo era anche capace di gesti generosi e controcorrente, come quando nel 1938 sì era rifiutato, caso unico in Italia, di succedere ad Attilio Momigliano, cacciato dalla cattedra di letteratura italiana dell’università di Firenze per via delle leggi razziali. Era seguito un conflitto con il regime, o forse piuttosto con il solo gerarca Starace, ma tale da costringere lo scrittore al confino con la musa Paola Masino. Confino dorato, trascorso a Venezia nel lussuoso palazzo di un amico aristocratico, ma pur sempre confino. Insomma, un percorso nel ventennio simile a quello di tanti altri intellettuali: di affiancamento non privo di qualche contrasto.
In un Paese normale, dopo la dittatura un personaggio con questo curriculum sarebbe stato allontanato da tutte le cariche pubbliche. Non così in Italia, dove nel ventennio percorsi intellettuali conniventi con il potere erano stati all’ordine del giorno, e di epurazione non si era mai parlato seriamente. Quindi dopo la guerra Bontempelli aveva perfino potuto trovare rifugio nel Fronte Popolare, entrando nelle liste per il Senato delle elezioni del ’48. Qualche compagno duro e puro avrebbe storto il naso? Poco male: lo si poteva sempre candidare in un collegio blindato, come quello di Siena, dove infatti fu eletto senza troppi problemi. D’altronde, perché no? L’Italia postbellica brulicava di personaggi simili, fascistoni convinti che ora occupavano con la stessa disinvoltura posizioni di potere.
Ma da noi c’è sempre il cavillo in agguato. Nel caso di Bontempelli, esisteva un articolo di legge che dichiarava ineleggibile per i successivi cinque anni gli autori di libri di propaganda per il regime. Un articoletto da niente, messo lì non si sa bene come, passato senza che nessuno o quasi se ne avvedesse, che equiparava i propagandisti a chi aveva avuto le responsabilità più alte. La norma riguarda da vicino Bontempelli, a suo tempo autore di un’antologia scolastica, Oggi, chiamata così «perché vuol farvi sentire – ma voi già lo sentite – quanto è bella la vita dell’Italia nostra che Mussolini e la sua generazione consegneranno a voi ragazzi quando avrete vent’anni». Seguivano pagine e pagine di pura propaganda, su cui oggi è difficile farsi un giudizio visto che il libro è irreperibile. Ma dopo la guerra Bontempelli, e il Fronte Popolare che lo candidava, consideravano quel peccato assai veniale, tanto più che lo scrittore sosteneva di aver firmato il testo al posto di un altro, mai menzionato, che non avrebbe potuto farlo. E le altre prose encomiastiche? Esistevano, ma non erano in questione. Considerarle, dice nel dibattito parlamentare un pezzo da novanta come Umberto Terracini, sarebbe sbagliato: «così facendo noi manchiamo al nostro stretto dovere. Il quale sta nel commisurare il libro all’articolo di una determinata legge».
Dunque Bontempelli da salvare non perché non fascista, ma perché il cavillo non è applicabile. E perché, del resto, l’Italia non ha avuto alcun ricambio. «Ciascuno si guarderà attorno – è ancora Terracini che parla – e vedrà quanto, nella nuova Italia, è rimasto del passato fascista; e identificherà in ogni ganglio, in ogni ente, in ogni istituzione, nei posti più delicati della struttura politica, sociale ed economica persone che hanno servito il fascismo e lo hanno osannato». Ben curioso modo di difendere l’imputato, senza sostenerne in nessun modo l’innocenza, ma perorandone l’assoluzione perché così fan tutti. E i senatori, invece, condannano, con un voto segreto che ribalta la maggioranza in aula.
Paolo Aquilanti, sessantenne, non è scrittore di professione, ma grand commis di lungo corso al Senato, oggi consigliere di Stato e quindi da tempo frequentatore dei palazzi del potere. Per raccontare questa “storia italiana” decide di restare nel suo mondo di riferimento, ambientandola tutta a Palazzo Madama e dintorni. Concentrato sulla giornata dell’espulsione, 2 febbraio 1950, la guarda soprattutto dagli occhi di Bontempelli, dividendola in due: la mattinata, trascorsa a studiare la situazione, e il pomeriggio con il dibattito in aula. Seguono due brevi conclusioni, nell’amarezza della sera e del mattino successivo, con la lettura dei giornali. Aquilanti scrive con prosa asciutta, limitandosi semmai a inserire qua e là qualche contrappunto poetico di Paola Masino. Lui non commenta, lascia parlare i fatti, in parte ricostruititi “con licenza d’immaginazione”, o riportati come li trascrive la seduta del Senato, che si può leggere anche online. Non commenta ma partecipa, con quello sgomento lieve che sempre coglie chi si accorge che da noi il doppiopesismo non è un fenomeno dei tempi correnti, ma un fiume carsico che percorre la nostra storia, anno dopo anno, giorno per giorno.