Il Sole 24 Ore, 1 novembre 2020
Il coronavirus ha travolto i piani economici di Trump
Il coronavirus ha cambiato tutto. Sarà decisivo per la scelta del 46° presidente degli Stati Uniti.
A fine 2018 il World Economic Forum poneva gli Usa al primo posto nella classifica dei paesi più competitivi al mondo. Davanti a Singapore, Svizzera, Germania e Giappone.
L’America di Trump ha ereditato una forte economia dall’amministrazione Obama e nei primi anni di presidenza ha continuato a crescere a passo sostenuto. La disoccupazione è scesa ai minimi da 50 anni. Il Pil è aumentato oltre le stime. Wall Street ha conosciuto il più lungo periodo rialzista della sua storia.
I pilastri della “Trumponomics” sono stati la riforma fiscale e la deregulation. Il protezionismo, con la guerra dei dazi, che però sembra aver creato più danni che vantaggi. Il disavanzo commerciale con la Cina è aumentato. Le tariffe hanno pesato sulle aziende americane importatrici. L’America First di Trump ha impattato in maniera negativa anche nei rapporti commerciali con i tradizionali partner, come l’Europa.
Il taglio delle tasse è stato il motore della crescita dell’America trumpiana. Forse l’unica sua grande decisione in materia di politica economica. Il Tax Cuts and Jobs Act (Tcja) siglato il 22 dicembre 2017 dal presidente ha diminuito l’imposizione fiscale ad aziende, persone fisiche, e generato un maxi-rientro di capitali. Ha ridotto l’aliquota della corporate tax federale dal 35% al 21%. Ha abbassato i sette scaglioni della tassazione federale sui redditi personali. L’effetto negativo è stato il deficit federale salito al record, e il debito pubblico oltre i 27mila miliardi di dollari. Ma i tagli fiscali di Trump hanno spinto la crescita e aiutato il mercato del lavoro con la disoccupazione che a febbraio 2020 era scesa al 3,5%, ai minimi da mezzo secolo. «Il taglio delle tasse è l’eredità di Trump, la più importante decisione di politica economica degli ultimi 40 anni», dice l’economista Lorenzo Montanari di Americans for Tax Reform, think thank conservatore di Washington fondato da Ronald Reagan, che è stato tra gli ispiratori dietro le quinte delle decisioni fiscali prese dall’amministrazione Trump. «Prima di Trump c’era stato il patto sulle tasse di Reagan del 1985. Poi più niente per oltre quarant’anni. La riforma fiscale è stata un volano per l’economia. Assieme alla deregulation ha reso l’America super competitiva».
Un aspetto poco evidenziato è quello del rientro dei capitali. La riforma fiscale di Trump ha permesso il rientro di 3.300 miliardi di dollari di capitali depositati all’estero o nei paradisi fiscali che non rientravano per non incorrerre nella doppia tassazione. Una rivoluzione che è stata un ossigeno per l’economia americana.
Con la deregulation delle oltre 100 regole ambientali, cancellate o indebolite da Trump, secondo le stime del think thank, sono stati ridotti i costi regolatori per 245miliardi, con addirittura un saldo negativo di 33 miliardi di minore spesa per le aziende rispetto all’era Obama.
I punti deboli della politica economica di Trump sono stati il protezionismo e le politiche contro l’immigrazione. Critiche arrivano non solo dai democratici ma anche dai repubblicani. L’America oggi è meno amata e più isolata rispetto a prima di Trump.
L’International Trade Barrier Index 2019 pone gli Usa al 54esimo posto al mondo. La classifica misura il grado di libertà degli scambi e l’avanzamento del libero mercato. Viene calcolata su 86 paesi che rappresentano l’83% della popolazione e il 94% del Pil globale. Ai primi cinque posti figurano Singapore, Hong Kong, Nuova Zelanda, Olanda e Svezia. L’Italia è al 37° posto. Gli Stati Uniti sono vicini a paesi come Malesia e Nigeria. Nelle ultime posizioni Cina e India.
«Noi – spiega Montanari, tra i curatori dell’indice – abbiamo criticato l’utilizzo dei dazi. Il protezionismo danneggia l’economia. Non è un approccio liberale e del mondo repubblicano. Così come abbiamo criticato le politiche di Trump sull’immigrazione. In una logica di libero mercato l’immigrazione controllata è positiva e facilita la crescita. L’America è diventata grande grazie ai cervelli che sono arrivati da tutto il mondo. Gli indiani e i cinesi hanno reso grande la Silicon Valley. Anche gli italiani: ci sono oltre 200 scienziati italiani negli Usa».
Secondo un sondaggio della Kaiser Foundation, l’economia sarà il fattore chiave nella decisione su chi votare per la presidenza per la maggioranza degli elettori americani registrati.
Mark Zandi, capo economista di Moody’s Analytics, sostiene che il piano di Biden per far ripartire l’America sia più convincente di quello di Trump. Con la pandemia fuori controllo, il record di nuovi casi e di morti, un quinto degli americani senza lavoro e la peggiore crisi economica dalla Seconda Guerra Mondiale. «Il piano di Trump – dice Zandi – è semplice: raddoppiare le politiche del primo mandato». Trump sostiene che come ha saputo lanciare l’economia prima della pandemia, ci riuscirà di nuovo. Ma il quadro ora è totalmente diverso. Quando ha iniziato la presidenza ha ereditato un’economia ripartita. Il treno era in corsa. Con lui ha aumentato velocità. «Negli ultimi tre anni di Obama – spiega Zandi – l’economia ha creato più posti di lavoro e la disoccupazione è scesa più che nei primi tre anni di Trump».
I “Bidenomics” sono l’opposto delle politiche di Trump. Rientrare negli accordi internazionali. Rilanciare il multilateralismo e i rapporti con gli alleati. Dare la cittadinanza a 11 milioni di dreamers. Far ripartire la Wto spingendo la Cina a sottostare alle regole commerciali internazionali. Biden ha parlato della possibilità di rilanciare l’accordo di libero scambio Trans-Pacific Partnership, con regole più stringenti su lavoro e ambiente, spingendo la Cina ad aderire. In politica economica propone più fondi al welfare, per scuola e sanità. Un piano keynesiano con migliaia di miliardi di investimenti per infrastrutture, energia pulita, ricerca e sviluppo, 5G, tecnologia per le batterie e intelligenza artificiale. Spesa finanziata dall’aumento delle tasse al 28% e ai redditi sopra 400mila dollari. Ma il primo punto del programma di Biden se vincerà, al Day one, il 21 gennaio, sarà un grande piano nazionale per battere il coronavirus. Sette americani su dieci pensano che gli Usa non stiano facendo bene nella lotta al virus e solo il 39% approva l’operato di Trump.