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 2020  novembre 01 Domenica calendario

Intervista al principe di Giordania El Hassan bin Talal

Sua Altezza Reale il Principe El Hassan bin Talal di Giordania è noto per il suo lavoro umanitario internazionale. È stato recentemente nominato presidente onorario del Consiglio mondiale per i rifugiati e le migrazioni insieme con l’ex Segretario di Stato americano Madeleine Albright.
In Europa ogni Paese ha il suo modo di affrontare la pandemia: non sarebbe il momento per dimostrare che l’Europa ha una sola voce? Così come il Medio Oriente e il mondo intero?
«Si tratta per molti versi di passare dall’umiliazione alla dignità umana, ma sembra esserci uno scollamento tra geopolitica e situazione umanitaria, che, contro ogni ragione, è aggravata dalla pandemia. I decisori politici vedono sempre più il mondo in termini di "noi e loro", i miei diritti, la mia salute, anche a scapito della vostra. Lei ha fatto riferimento alla nostra regione del Medio Oriente. Preferisco una visione più ampia, da Marrakesh al Bangladesh, che comprenda il Levante in cui si includerebbero anche Egitto, Turchia e Iran e, naturalmente, Israele, se e quando diventerà parte della regione in termini di rispetto reciproco. Eppure l’entroterra del petrolio nel Golfo e del gas nel Mediterraneo orientale non è mai stato considerato altro che in termini di oleodotti, riducendo la periferia agli emarginati e ai diseredati, le cui esigenze non vengono prese in considerazione, neanche in termini di salute, igiene ed ecologia: sono queste le basi della dignità umana».
Esiste una politica regionale efficace?
«No, c’è una totale assenza di politiche regionali. In un certo senso la storia nel Levante differisce poco da quelle di altri luoghi: la polarizzazione, il ridimensionamento e le crisi tendono a colpire in modo sproporzionato i vulnerabili e gli emarginati. Quando si parla di balcanizzazione, vediamo la regione frammentarsi, come risultato della politica degli oleodotti, in zone di influenza: dalla Libia alla Siria e all’Iraq».
Come e da chi può essere corretta questa deriva?
«Nel caso dei Balcani c’è stata una forte enfasi da parte della Nato e degli Stati Uniti per portare le persone al tavolo di Dayton, ma anche quegli accordi, adesso, sono minacciati dalla polarizzazione. Ciò di cui abbiamo bisogno è l’allineamento per la pace».
Nella regione del Levante quanto ha inciso il Covid?
«Per quanto riguarda il Covid e la Giordania, nessun altro Paese ha visto la sua popolazione aumentare di quattro volte dagli Anni 90, da tre-quattro milioni agli oltre 11 milioni di oggi, di cui oltre un milione di rifugiati siriani, l’83% dei quali vive nelle nostre aree urbane. Nei primi mesi abbiamo applicato le misure più rigorose di blocco totale e la cosiddetta "teoria degli interruttori" ci ha dato il tempo per organizzarci. E poi è arrivato il contraccolpo. Il 55% delle famiglie ha registrato un aumento del prezzo del cibo. Il 36% delle famiglie non ha avuto accesso ai mercati. E così via».
Di recente è diventato presidente onorario del Consiglio mondiale dei rifugiati.
«Sì, e vorrei suggerire che non si può distinguere tra autoctoni, cittadini e rifugiati, siano siriani, palestinesi, iracheni. Sono tutti seduti agli stessi banchi, studiando grazie alla didattica virtuale. I sistemi di distribuzione alimentare sono stati drasticamente rivisitati e migliorati, ma abbiamo un’enorme sfida nella regione. Dal 70 all’80% della popolazione è in movimento. La Siria è in guerra da nove anni e 5 milioni e mezzo di rifugiati siriani vivono in Turchia, Libano, Giordania, Iraq ed Egitto. Ci sono 6 milioni 600 mila sfollati interni in Siria e oltre 2 milioni di bambini che non vanno a scuola. Quindi con quella percentuale della popolazione in movimento è difficile parlare di ricostruzione della Siria senza parlare anche di ricostruzione della regione».
E qual è l’impatto del Covid sull’ambiente?
«Come altrove, l’impatto più diretto è la perdita del lavoro, che aumenta ulteriormente la frattura tra chi ha e chi non ha, sia a livello locale sia regionale. Dobbiamo parlare di politiche, non di politica, e sviluppare una visione per la stabilizzazione del Levante, nonostante le correnti incrociate delle crisi tradizionali: arabo-israeliana, palestinese-israeliana o turca- greca. L’emergenza del Covid, per quanto drammatica, non ci ha ancora fatto rinsavire».
La sicurezza dell’acqua è la sua maggiore preoccupazione?
«L’essere umano, e quindi la dignità umana, è la sfida. Abbiamo il coraggio di creare una banca dell’acqua o una banca della terra, in cui le persone diventano titolari in prima persona nello sviluppo di una concezione di condivisione? Dobbiamo pensare in modo interdisciplinare - salute, istruzione, acqua - così da creare una nuova mappa regionale, destinata a uno sviluppo sociale ed economico che sia sostenibile».
Pensa che per quanto riguarda Israele ci sarà una pacificazione?
«Ho passato la vita a studiare l’ebraico e a sperare che musulmani, cristiani ed ebrei potessero unirsi. Ma le interpretazioni in termini inter-religiosi sono diverse e ognuno conserva una particolarità nella propria particolarità. Abbiamo cercato di fare la pace con i Paesi vicini. Forse questo piccolo Paese, la Giordania, tra il Golfo da un lato e il Levante dall’altro, ha la possibilità di contribuire in qualche modo come fulcro regionale di idee e di proposte».
Lei ha passato la vita a lottare per unire le persone in nome della pace. Qual è il suo approccio?
«Credo che dobbiamo lottare per qualcosa e non sempre contro qualcosa. Dobbiamo sviluppare i valori che Papa Francesco ha menzionato in modo così eloquente e appropriato in Tutti Fratelli. Dignità umana, governance e Stato di diritto. L’opposto della povertà non è la ricchezza. In troppi luoghi l’opposto della povertà è la giustizia. La sfida che dobbiamo affrontare è rappresentata da noi stessi. Abbiamo tre Stati nella regione con capacità nucleare: Pakistan, India e Israele. Quindi la capacità di distruggersi a vicenda c’è e noi siamo nel mezzo della zona critica. Eppure, d’altra parte, credo che questo lungo periodo di isolamento sia una meravigliosa opportunità per sviluppare una nuova autorità morale per un allineamento per la pace».
Se si chiude tutto, l’economia sarà un disastro e le persone moriranno di fame. Ma, senza lockdown, il virus resta lì. Dov’è la soluzione?
«Nella nostra regione il 40% della popolazione del mondo arabo, 161 milioni di persone, è in povertà estrema. Questa condizione è esacerbata dal Covid, ma il Covid non è il problema: il problema è la cattiva governance e la mancanza di rapporti reciproci. Come puoi responsabilizzare una popolazione in assenza di un riconoscimento dei beni comuni regionali e nel mezzo delle lotte tra interessi di potere, ad esempio in Yemen, Libia e Siria?
Qual è la sua visione del mondo in questo momento?
«Tutto si riduce alla domanda: come si passa dall’umiliazione alla dignità umana? E come possiamo sviluppare la consapevolezza di una scelta? Vogliamo creare un equilibrio tra la vita umana e i mezzi di sussistenza e, per quanto riguarda la Giordania, ci stiamo provando. Esiste un’etica e una fermezza da parte della Giordania che non implica l’uso della forza, ma la cooperazione, a livello locale e anche regionale. Si può soltanto sperare che noi abbiamo fatto qualcosa di utile per le generazioni future e che loro non pensino troppo male di noi». —
Traduzione di Carla Reschia