Corriere della Sera, 1 novembre 2020
L’economia sospesa
Il segreto meglio custodito d’Italia vale 209 miliardi di euro. Chiedete a chi volete, ma non troverete oggi qualcuno disposto a descrivere con precisione come sarà utilizzato un solo euro dei fondi di Next Generation EU per il nostro Paese. Nessuno fra i pochissimi che potrebbero farlo è autorizzato a stampare i documenti sui piani del Recovery Fund archiviati nei computer a Palazzo Chigi. Persino i funzionari della Ragioneria dello Stato, i soli in grado di fare i conti, devono recarsi alla Presidenza del Consiglio e non è permesso loro di portar fuori neanche una carta. Tanta riservatezza è comprensibile. In Italia gli appetiti sono così tanti che per il governo giocare a carte scoperte significa esporsi ad assalti da ogni lato. Anche la riservatezza però ha un costo, quando arriva il momento di investire in innovazione e ricostruire il motore dell’economia. L’innovazione ha bisogno di aria fresca. Ha bisogno di aprirsi alle idee di chi conosce realmente le frontiere tecnologiche, perché ci compete ogni giorno per sopravvivere e prosperare. Da solo un confronto carbonaro fra mandarini di Stato – anche eccellenti, anche se quelli coinvolgono ottime aziende a controllo pubblico emerse da decenni di monopolio – non potrà mai restituire la foto nitida del futuro che ci serve disperatamente.
Anche perché, a questo punto, non possiamo permetterci di sprecare neanche uno spicchio di questa chance. In primavera si poteva ancora pensare che la pandemia sarebbe stata superata in pochi mesi e lo choc sarebbe stato profondo ma passeggero. Nelle ultime settimane invece è diventato chiaro che Covid-19 è ormai in una fase endemica, nell’attesa non brevissima che un vaccino sia testato, autorizzato, prodotto, distribuito e somministrato in quantità sufficienti. Per l’economia italiana è destinato a prolungarsi un tempo sospeso dietro il quale si avverte una profonda precarietà.
Il fondamento di tutto è diventato una sorta di «whatever it takes» di bilancio, sostenuto dalla Banca centrale europea: la spesa pubblica deve fare tutto il possibile, a qualunque costo, per impedire un ulteriore impoverimento di massa mentre le aziende rimangono bloccate e la domanda collassa. Ci penserà ancora almeno per tutto il 2021 la Bce a creare denaro per finanziare quote importanti del debito astronomico che ne deriva. I conti con quel debito si faranno più tardi, ma è adesso che classe politica, sindacati e associazioni di imprese devono capire esattamente la struttura su cui l’Italia si regge in questo tempo sospeso. Essa oggi ha quattro gambe. La prima è il ricorso alla cassa integrazione di massa, che ha già coinvolto il 40% dei lavoratori e più di metà delle imprese. La seconda è il blocco dei licenziamenti, unico esperimento del genere in Italia dopo quello del biennio 1945-1947 decretato nel timore di una rivolta dei comunisti filosovietici in un Paese in macerie. La terza gamba dell’economia italiana nel suo tempo sospeso è la moratoria che oggi permette a quasi tre milioni di italiani di non pagare alle banche le scadenze del mutuo, per un totale di 300 miliardi di euro. La quarta gamba infine sono le garanzie dello Stato sui crediti bancari per poco più di 110 miliardi e a favore di 1,3 milioni di aziende.
La durata di queste misure eccezionali è appena stata prorogata ancora una volta (a marzo quelle sul lavoro, a giugno sul credito). Ma non serve molto a capire che ci stiamo tenendo su una costruzione precaria e a tempo. Se venisse meno, l’impatto sarebbe drammatico. Eppure più a lungo resta in piedi, più drammatico rischia di essere l’impatto quando dovrà venire meno. Scriveva a proposito del blocco dei licenziamenti l’editorialista del Corriere della Sera Libero Lenti il 6 agosto ’47: «Più che curare, maschera la disoccupazione. E come tutte le misure di terapia sintomatica, conduce a una disoccupazione ancora più elevata di quella iniziale». Perché, spiegava Lenti, le imprese «non sono in grado di sopportare il peso crescente del blocco: e allora ai senza lavoro iniziali si aggiunge la schiera di quelli che avrebbero potuto trovare occupazione nelle aziende, se queste ultime avessero potuto reggere: e ora sono esanimi».
Paradossalmente la versione contemporanea di questa dinamica è nei conti bancari delle imprese, che esplodono. Da febbraio la liquidità aziendale depositata in Italia è cresciuta di 57 miliardi (più 18%), molto più di quella delle famiglie (salita di 24 miliardi, più 2%). Gli imprenditori non riescono a intravedere che futuro li aspetta, non sanno come e quando potranno riorganizzare le loro aziende, dunque sospendono qualunque investimento. Ma è questa stessa paralisi che alimenta la recessione, il conto dei disoccupati di oggi e di domani e le perdite future delle banche.
Oggi le quattro gambe su cui si regge l’Italia sono la realtà, piaccia o no. Ma occorre chiedersi da subito se non stiamo congelando il Paese invece di prepararlo a rialzarsi. Il momento di pensare a come tornare alla normalità è adesso, altrimenti non saremo neanche in grado di usare al meglio i 209 miliardi di Next Gen Eu. Per esempio andrà finanziato molto il sostegno ai disoccupati, per poter togliere il blocco dei licenziamenti. Andranno rafforzate le garanzie pubbliche al credito, prima di chiudere la moratoria con le banche. Ora è il tempo di pensarci. Il fondo di Lenti sul Corriere nell’agosto ’47 si intitolava: «Primo: sapere bene ciò che si vuole». Plus ça change.