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 2020  novembre 01 Domenica calendario

Il manager che svelò al Papa le camere a gas

Il 18 settembre 1942 il sostituto per gli affari ordinari della Segreteria di Stato della Santa Sede, Giovanni Battista Montini (poi Papa Paolo VI), mise per iscritto la notizia di un grave sviluppo della persecuzione antiebraica nazista in Polonia, riferitagli dal conte Malvezzi da poco rientrato da quel Paese. L’appunto è noto: fu pubblicato dalla stessa Santa Sede nella raccolta di documenti sul proprio operato nella Seconda guerra mondiale (Actes, vol. 8, 1974, pp. 665-666). Giovanni Malvezzi, direttore centrale dell’Iri, in quegli anni si recò varie volte in Polonia per seguire gli interessi dell’Istituto per la ricostruzione industriale; in tali occasioni si offrì per svolgere preziosi incarichi di collegamento tra il Vaticano e le autorità cattoliche locali. Il breve appunto, conservato in un fascicolo dell’Archivio della Segreteria di Stato della Santa Sede (Extracta, Germania, 742/12), è intitolato Notizie dalla Polonia (Sig. Malvezzi). Esso non contiene particolari su chi in loco gli aveva fornito le informazioni (un prelato? ambienti italiani? la Resistenza?).
Quel 18 settembre Montini annotò: «I massacri sistematici degli Ebrei (…) hanno raggiunto proporzioni e forme esecrande spaventose», senza dettagliarle. Aggiunse: «Pare che per la metà di ottobre si vogliano vuotare interi ghetti di centinaia di migliaia di infelici», per recuperare abitazioni per i cittadini polacchi, ai quali sarebbero subentrati tedeschi sfollati per i bombardamenti. Il testo non esplicitava la città in cui ciò avveniva, tuttavia data e numero delle vittime corrispondono a Varsavia, il cui ghetto era ripartito in più aree.
Né questo né altri documenti dell’ultima decade di quel settembre, pubblicati nella raccolta documentaria e/o contenuti in quel fascicolo archivistico, menzionano l’utilizzo del gas venefico per le uccisioni. La sua prima attestazione in quei volumi è in una dichiarazione dell’ambasciata presso la Santa Sede del governo polacco in esilio a Londra, datata 3 ottobre 1942 (Actes, vol. 8, p. 670), che, secondo annotazioni apposte sulla velina del documento, sarebbe stata consegnata entro il giorno 6 al segretario della Congregazione degli affari ecclesiastici straordinari presso la Segreteria di Stato, Domenico Tardini (la velina è conservata nell’Archivio del Polish Institute and Sikorski Museum di Londra, A.44.49/6, ed è stata cortesemente recuperata da Natalia Indrimi del Centro Primo Levi di New York). Il massacro degli ebrei – vi è scritto, in francese – era attuato «in vari modi, tra cui quello dell’asfissia (asphyxiement) in locali appositamente adattati».
La dichiarazione esplicitava di basarsi su due fonti principali, tra le quali «un cittadino dei Paesi dell’Asse che aveva visitato quei paraggi». Essa menzionava, tra l’altro, l’articolazione del ghetto di Varsavia, il fatto che vi fossero 300 mila ebrei, la prossima destinazione delle loro abitazioni agli «ariani».
La semplice successione cronologica di questi documenti può lasciare nel lettore la sensazione che la prima informazione sull’utilizzo del gas venefico sia pervenuta in Vaticano tramite la dichiarazione polacca del 3 ottobre. A ben vedere, le informazioni attribuite a Giovanni Malvezzi e al «cittadino» dell’Asse presentano un alto tasso di sovrapponibilità; poiché però la dichiarazione polacca non assegnava esplicitamente a quest’ultimo la notizia dell’uccisione per asfissia, la suddetta successione può lasciar pensare che, con «proporzioni e forme esecrande spaventose», Montini si riferisse, oltre che al dato quantitativo delle uccisioni, alle sole modalità delle fucilazioni di massa e delle morti indotte per fame e malattie.

Invece, due ulteriori documenti mostrano che la notizia del gas era pervenuta all’ambasciata polacca proprio da ambienti vaticani, e aprono all’ipotesi che Montini con «forme esecrande spaventose» intendesse una modalità tanto inaudita da appuntarla con le parole della propria reazione emotiva.
I documenti sono stati pubblicati alcuni anni fa da Dariusz Libionka, nell’originale polacco e in una non bella traduzione inglese, sui periodici dell’importante Polish Center for Holocaust Research: «Zagłada Zydów. Studia i Materiały»/2006, ovvero «Holocaust. Studies and Materials»/2008, e sono conservati nel Polish Institute and Sikorski Museum. Per quanto ho potuto verificare, la loro pubblicazione è decisamente poco nota; per la loro citazione in questo articolo mi sono valso della traduzione cortesemente fatta da Laura Quercioli Mincer.

Il 7 ottobre 1942 l’ambasciatore polacco in Vaticano, Kazimierz Papée, inviò al proprio ministro degli Affari Esteri a Londra copia di una lettera che aveva ricevuto «da uno dei cardinali della curia a me amico». Quest’ultima, datata 23 settembre, riportava informazioni recate da «una personalità italiana giunta dal nostro Paese», tra cui quella del progressivo trasferimento degli ebrei di Varsavia «a est di Lublino (sic) dove, in baracche separate, essi vengono spogliati degli abiti e quindi gasati oppure fucilati in massa». La lettera precisava inoltre che «nel cosiddetto piccolo ghetto non ci sono già più ebrei»; che era stabilita l’uccisione entro fine ottobre di tutti i 300 mila ebrei della città; che le abitazioni sarebbero state assegnate agli altri polacchi. Tutte le informazioni erano qualificate come «nota» o «non nota ma certa».
Il confronto dei testi mostra che questa lettera del 23 settembre fu alla base della parte qui sopra richiamata della dichiarazione dell’ambasciata del 3 ottobre, ed evidenzia la piena compatibilità di entrambe con l’appunto di Montini del 18 settembre. Al momento non sono attestati o ipotizzati altri corrieri di informazioni dalla Polonia, oltre a Malvezzi, giunti in Vaticano nella seconda metà del settembre 1942. L’identità del cardinale che avallò e inviò le notizie resta da individuare; si può segnalare che a quella data non sembra vi fossero cardinali polacchi a Roma, e che il breve elenco dei destinatari della dichiarazione del 3 ottobre, sopra richiamata, comprendeva il cardinale Eugène Tisserant e il cardinale Francesco Marmaggi, che era stato nunzio a Varsavia dal 1928 al 1935.
La mia sintesi interpretativa dell’intera vicenda qui illustrata è che Malvezzi raccolse o ricevette in Polonia l’informazione sulle uccisioni per mezzo del gas e la portò in Vaticano, e che da lì essa fu trasmessa all’ambasciatore polacco.

È una sequenza cronologica parzialmente nuova. Essa va ad esempio tenuta presente quando si considera la risposta che in quei giorni la Santa Sede dette alla lettera del 26 settembre (pervenuta il 27) degli Stati Uniti (entrambe assai note), che chiedeva – in inglese – se «il Vaticano ha qualche informazione che potrebbe portare a confermare» le notizie sulla «liquidazione» del ghetto di Varsavia tramite «esecuzioni di massa (…) in campi appositamente approntati» o altre «barbarie». Il messaggio non menzionava il gas.
Il 10 ottobre il segretario di Stato del Vaticano cardinale Luigi Maglione rispose che «da altre fonti sono pervenute alla Santa Sede notizie di severi provvedimenti presi nei confronti dei non ariani», notizie delle quali «non è stato finora possibile alla Santa Sede di controllare l’esattezza». La lettera inviata ripeteva con rari adattamenti il testo preliminare manoscritto del 6 ottobre (Extracta, Germania, 742/25), che i curatori della raccolta documentaria della Santa Sede attribuirono genericamente all’Ufficio (Actes, vol. 8, p. 669) e che oggi il responsabile dell’Archivio storico della Segreteria di Stato attribuisce a Pio XII (Johan Ickx, Le Bureau. Les Juifs de Pie XII, Michel Lafon, settembre 2020, p. 235; il libro pubblica in francese molti brani di atti dell’Archivio, senza intrecciarli con la storiografia o con la restante documentazione, quale quella qui sopra riassunta). Concetti e vocaboli della risposta vaticana decrescevano notevolmente quelli della missiva statunitense e ancor più le montiniane «proporzioni e forme esecrande spaventose»; inoltre non introducevano la notizia del gas, neanche riprendendola dalla dichiarazione polacca del 3 ottobre.
Tutto ciò interessa anche la storia italiana. L’operato di Giovanni Malvezzi è oggi noto attraverso fili lievi e sparsi. Già in un rapporto per l’Iri del luglio 1940 egli inserì notizie sul trattamento degli ebrei a Łodz (l’ha riferito Alessandro Zussini nel 1996 nella rivista «Archivi e imprese»). Nel 1944, durante la Repubblica sociale italiana, fu accusato da una lettera anonima di atteggiamento «filoanglofrancese e filoebraico» e di essersi recato spesso in quegli anni in Polonia e a Parigi «per trattare affari del suo Istituto in quei Paesi: si diceva che così avesse l’occasione di fornicare (sic) con elementi ebraici e antifascisti di colà» (ringrazio Donato Barbone per la segnalazione della citazione parziale del documento nel saggio di Gian Luca Podestà nel primo volume della Storia dell’Iri pubblicata da Laterza a cura di Valerio Castronovo).

Nel dicembre 1945 Piero Malvezzi accennò su un giornale a quei viaggi del padre, senza tuttavia farne il nome (ne ha scritto Gabriella Solaro nel libro a più mani del 2008 dedicato al figlio, Il mondo di Piero, edito da Franco Angeli). Da ultimo è doveroso menzionare il ricordo consegnato dall’economista Paolo Leon in una lettera a Corrado Augias, pubblicata l’8 novembre 2008 su «Repubblica»: egli scrisse che nel 1954 (ovvero mezzo secolo prima) Malvezzi parlò a un piccolo gruppo cattolico di un suo viaggio all’Est nel 1942, della grave situazione di quegli ebrei e di una proposta di soccorso che egli avanzò in Vaticano senza però trovare rispondenza alcuna. Una «testimonianza di testimonianza» necessita sempre di un doppio livello di adeguate verifiche. Ma è l’intera vicenda dei viaggi in Polonia di Giovanni Malvezzi e del suo operato per la conoscenza della Shoah che attende un adeguato impegno collettivo di ricerca.