La Lettura, 1 novembre 2020
I fiumi raccontano che cos’è l’America
«Ho conosciuto fiumi antichi come il mondo e più vecchi del flusso del sangue umano nelle vene», scriveva Langston Hughes nella poesia Il negro parla di fiumi, sottolineando il legame dei corsi d’acqua con la storia di schiavitù e di libertà degli Stati Uniti. «La mia anima è diventata profonda come i fiumi». La civiltà prospera lungo i fiumi, motori dello sviluppo economico, del romanzo di una nazione. Proprio ai fiumi è dedicata la piattaforma Confluence: The History of North American Rivers (riverhistories.org), ideata e gestita dallo storico della Columbia University Wallace Scot McFarlane. Un progetto ambizioso, da cui è nata, in collaborazione con la Jefferson Scholars Foundation, la conferenza All Water Has a Memory: Rivers and American History («Ogni acqua ha una memoria: i fiumi e la storia americana»), che termina domani, 2 novembre, proprio alla vigilia delle presidenziali, e rilegge la geografia dei fiumi alla luce della schiavitù, della resistenza indigena e delle battaglie ambientaliste. «La Lettura» ha intervistato McFarlane.
In che modo i fiumi hanno ricoperto un ruolo centrale nella creazione dei moderni Stati Uniti?
«Prima delle ferrovie e delle autostrade, erano i fiumi la via per raggiungere i mercati principali. Senza i fiumi, chiunque vivesse nei territori interni avrebbe potuto vendere il proprio raccolto soltanto alle fattorie e ai villaggi circostanti. I fiumi hanno dato un contributo fondamentale all’industrializzazione, perché le dighe fornivano l’energia necessaria all’industria tessile. Che a sua volta utilizzava il cotone del Sud, spesso coltivato in aree fertili create dai depositi sedimentari dei fiumi. Ma al di là del ruolo cruciale nell’agricoltura, nell’industria e nei trasporti, i fiumi hanno creato soprattutto un legame attraverso lo spazio, che ha permesso a politici, intellettuali e gente comune degli Usa di immaginarsi nazione, piuttosto che collezione di Stati. Fiumi come l’Hudson e il Mississippi hanno avuto un ruolo determinante nella creazione di un’identità nazionale. Uno dei primi movimenti artistici d’America è stata la Hudson River School, fondata nel 1825. Dipingevano la valle dell’Hudson, quasi tutto nello Stato di New York, ispirandosi al Romanticismo europeo».
Qual è l’obiettivo della piattaforma «Confluence»?
«Oggi gli studenti americani visitano un fiume solo se fanno rafting o canottaggio, o per raccogliere campioni per la lezione di biologia. Io voglio che lo facciano per conoscere la storia. Su Confluence, mappe storico-geografiche e documenti audio e video permettono di studiare i fiumi e le comunità che si sono formate attorno ad essi. L’estate scorsa ho guidato i miei studenti in una passeggiata digitale lungo il fiume Harlem, a New York, spiegando perché i residenti delle aree circostanti ne furono tagliati fuori. Poiché gli eventi, visite guidate e conferenze, si svolgono online, rimangono sulla piattaforma, che diventa così una risorsa sia per esperti che vogliano condividere le proprie ricerche, sia per organizzazioni ambientaliste. Sono già in contatto con colleghi di varie parti del mondo per allargare il raggio d’azione di Confluence oltre gli Stati Uniti».
Nel seminario, «Rivers, Politics, and Power in the United States», usa due fiumi, l’Hudson e l’Harlem, come «case study». Perché sono importanti?
«Senza il fiume Hudson, New York non sarebbe mai diventata la metropoli che è oggi. I fiumi hanno reso possibile il commercio, e i primi battelli a vapore, negli Stati Uniti, viaggiavano proprio sull’Hudson. Anche geograficamente l’Hudson è un fiume singolare, con un tratto che i geologi considerano un vero fiordo, come quelli norvegesi. Il fiume Harlem è invece un piccolo corso d’acqua con un noto passato industriale tra la zona di Upper Manhattan e il Bronx. La sua importanza, però, è nel suo essere testimone di disuguaglianze. Oggi, infatti, mentre gran parte delle sponde newyorkesi dell’Hudson sono diventate aree naturali protette, le comunità nate lungo l’Harlem non hanno accesso diretto al fiume per la presenza di autostrade, ferrovie e zone industriali. Una situazione che riflette altre ineguaglianze di New York, dove i quartieri più poveri soffrono in maniera sproporzionata per l’inquinamento e la mancanza di verde. Far conoscere la storia dell’Harlem può sensibilizzare alla necessità di un fiume più pulito e accessibile; e di una maggiore giustizia sociale».
Fiumi diversi, storie diverse. Così, mentre le grandi dighe statali costruite sul fiume Columbia, nella regione del Pacifico nord-occidentale, hanno concentrato ricchezza e potere nelle mani di un’élite di burocrati, i fiumi del Sud, provocando spesso inondazioni, hanno invece frenato lo sviluppo economico di quella regione.
«Il controllo dei fiumi attraverso dighe e argini è alla base del potere di tanti imperi. Meno nota è la storia di fiumi rimasti “selvaggi”, come quelli del Sud degli Stati Uniti nel corso del XIX secolo. Il texano Trinity River, ad esempio, che non subì alterazioni significative. Gli agricoltori, semplicemente, accettavano che occasionalmente le inondazioni avrebbero distrutto i raccolti di cotone. Dopo la Guerra civile, venuta meno la schiavitù, gli agricoltori abbandonarono le terre lungo il fiume, e molti contadini neri si trasferirono lì, comprando terreno fertile a poco prezzo o comunque stabilendosi in quelle regioni. Un’opportunità di indipendenza. La densa forestazione, poi, ha spesso fornito riparo, nel tardo Ottocento, dalle violenze razziste che affliggevano il Sud».
In che modo i fiumi del Sud hanno agevolato e insieme arginato la schiavitù?
«I battelli a vapore trasportavano il cotone coltivato dagli schiavi e gli schiavi stessi, comprati e venduti lungo i fiumi. Molte grandi piantagioni si estendevano lungo i corsi d’acqua sia per il terreno fertile che per l’accesso al mercato. Ma i fiumi costituivano anche una via di fuga per gli schiavi, uno strumento di resistenza. Come il Trinity, altri fiumi del Sud si rivelarono luoghi di relativa indipendenza, sebbene sulle sponde di fiumi più vasti, come il Mississippi, alle piantagioni dove lavoravano gli schiavi subentrarono forme inique di mezzadria. Lungo i fiumi del Sud scorre una storia di tragedia ma anche una storia di speranza».
Il Mississippi, appunto. Non c’è fiume, in America, che abbia avuto un ruolo e un’influenza pari.
«L’esproprio delle terre dei nativi, le piantagioni e gli schiavi, l’espansione del Paese, la Guerra civile: il Mississippi è stato protagonista dei più importanti momenti storici degli Stati Uniti. Ma non possiamo non citare il Potomac, culla della capitale federale Washington; il Rio Grande, al confine con il Messico, il cui corso naturale è cambiato più volte (perché i fiumi sono organismi vivi), scatenando battaglie legali e diplomatiche; il Colorado, che testimonia quanto il fiume e le comunità che ne dipendevano siano stati sacrificati per lo sviluppo agricolo e urbano dell’arido Sud Ovest».
Quali sono, invece, i fiumi della cosiddetta «resistenza indigena»?
«Ogni fiume, in America, contiene una storia di resistenza indigena. In particolare, se gli imperi europei avevano tecnologie superiori per attraversare l’Atlantico con le loro navi, una volta raggiunti gli estuari e i fiumi d’America, erano gli indigeni a possedere, invece, le barche migliori per la navigazione. Sulla sponda dell’Hudson i nativi americani costruivano canoe ricavate dai liriodendri, alberi molto alti e dritti. Una singola canoa poteva ospitare fino a quaranta rematori. Mentre sul fiume Kennebec, nel Maine, furono le canoe molto più piccole e leggere in corteccia di betulla a permettere alle tribù della confederazione dei Wabanaki di resistere ai britannici nel corso di varie guerre, nonostante gli invasori fossero più numerosi e meglio armati».
Da Mark Twain a Henry David Thoreau, a Langston Hughes, i fiumi sono veri «topoi» della letteratura americana. Quali altri autori andrebbero letti?
«Sia Twain, che ha cantato il Mississippi, sia il naturalista Thoreau erano grandi conoscitori di fiumi. In particolare, lo studio che Thoreau fece del Concord (Massachusetts), cercando di determinare la causa delle esondazioni, è ancora rilevante per geologi e geografi contemporanei. Tra i testi meno conosciuti suggerirei Goodbye to a River (1960) di John Graves, resoconto di un’escursione in canoa lungo il fiume Brazos, in Texas, e Mississippi Solo (1988) di Eddy Harris, che a trent’anni mollò tutto per navigare, nel freddo dell’autunno, lungo il Mississippi, in direzione del lago Itasca, nel nord del Minnesota. “Ho deciso di percorrere in canoa il Mississippi – scrive – e scoprire di che cosa fossi fatto”».
Ricorda il Thoreau di «Walden», e il midollo della vita. L’ultima sezione della conferenza sulla memoria dei fiumi riguarda invece l’aspetto ambientale. Perché i fiumi sono in prima linea nel movimento per l’ambiente?
«Negli anni Sessanta e Settanta, i fiumi furono determinanti per l’ascesa del movimento ambientalista. In primo luogo perché erano terribilmente inquinati e maleodoranti. Spesso scoppiavano incendi, danneggiando fabbriche e abitazioni. Addirittura, il fiume Androscoggin, nel Maine, emanava un tale fetore che le persone non potevano attraversare il ponte senza vomitare. I cittadini scesero in campo, e questo portò all’approvazione, nel 1972, del Clean Water Act, una legge grazie alla quale i nostri fiumi oggi sono molto più puliti di cinquant’anni fa. In secondo luogo perché le comunità che risiedevano lungo i fiumi si resero conto di come essi avessero formato la storia e l’identità della propria regione, e decisero di proteggerli. Oggi, i cambiamenti climatici rendono i fiumi più imprevedibili, con inondazioni e siccità più distruttive. La mia speranza è che la storia si ripeta, con nuove leggi e nuovi fondi. Se i cittadini capiranno che proteggere i fiumi vuol dire tutelare le proprie comunità, allora lotteranno per difenderli».