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 2020  novembre 01 Domenica calendario

La tanatoestetica e la ricomposizione dei corpi

Diplomata in Studi sulla Sacra Sindone e in Scienza bibliologica cinque-seicentesca, Simona Pedicini, 47 anni, è ricercatrice in Storia della Tanatologia e in Storia della dissezione su corpo sacro femminile in epoca controriformistica. Studiosa di Storia della mistica femminile barocca, pubblica articoli sul quietismo femminile. E fin qui sarebbe la biografia di una raffinata studiosa.
È da un certo punto in poi che Pedicini diventa altro: libera, non condizionata da mode e da etichette, antesignana, modello di donna (contiamo i modelli di donna, milioni, possiamo essere milioni, la vera rivoluzione femminista oggi). E dunque, da biografia: specializzata tanatoesteta, tanatoprattore, cerimoniere funebre, Simona Pedicini svolge corsi di formazione in tanatoestetica e, come libero professionista, si occupa della ricomposizione dei cadaveri.

Chi sono i suoi clienti?
«All’inizio parenti e amici. In seguito, grazie al passaparola, anche sconosciuti».
Il suo lavoro?
«Truccare e vestire i defunti».
Quando decide di volerlo fare?
«Negli anni, attraverso gli studi. Mi sono laureata in Letteratura cristiana antica greca e latina. Tesi: La figura dell’anticristo dalle origini a San Paolo».
Poi?
«Volevo diventare bibliotecaria, cosa che ho fatto in archivi e biblioteche ecclesiastiche. E proprio in biblioteca mi sono accostata agli studi sulla Sacra Sindone, arrivando a chiedermi: che forma ha preso la morte in quel corpo?».
Quindi?
«Conosco il significato della morte in assenza di cadavere».
A quel punto?
«Studiando i documenti sul modo in cui la Santa Inquisizione trattava le salme delle mistiche, ho fatto una scoperta: se c’era il dubbio della santità, si ipotizzava il diabolico. Non potendo dominare le menti delle donne in vita, la Chiesa ne dominava il corpo in morte».
Nello specifico?
«Aprivano i corpi per cercare dentro tracce del diabolico. Nei primi del Seicento la pratica della disseccazione veniva eseguita solo sulle donne».
Motivo?
«Si credeva che negli uomini il demonio si manifestasse esteriormente. Nella donna invece, sempre per la Chiesa, poteva penetrare interiormente».
Reazione sua?
«Ho pensato a quanto la storia abbia tolto alle donne la possibilità di decidere del proprio corpo da vive e da morte».
Inizia così a occuparsi di salme?
«Considero la manipolazione per ricomporre i corpi un piccolo atto rivoluzionario».
Per le donne?
«Fossimo stati nel Seicento sì. Siamo nel presente, e la mia è una restituzione democratica: a donne e uomini».
Primo impatto con la morte?
«In Salento, dove sono nata e cresciuta, in generale al Sud, i funerali sono scenografici. Entravamo nelle case in cui i defunti erano già sistemati. Luci basse, candele, le donne che piangevano in un angolo. Arrivando coi miei genitori, io ero protetta. Non era possibile un impatto emotivo».
Quando è avvenuto?
«Diciassette anni fa, per una mia amica. Niente di scenografico, nessuna candela, nessuna preparazione. C’ero io di fronte al cadavere della mia amica. E in quella stanza ho lasciato una parte di me».
Mai recuperata?
«Con la prima salma trattata per lavoro mi sono ripresa la parte di me abbandonata in quella stanza».
Veniamo allo specifico della sua professione: formazione?
«A Modena, a “La Terracielo – Funeral home”».
Come ci è arrivata?
«Cercavo qualcosa che non sapevo che cosa fosse, allora non se ne parlava molto. Un giorno, per caso, trovo l’annuncio su internet: Corso di tanatoestetica presso Scuola Superiore di Formazione per la “Funeraria Terracielo – Funeral Home” (primo e secondo livello). Insieme alla precisazione della possibilità di esercitarsi direttamente sui cadaveri, senza passare per i manichini».
Possibilità reale?
«Il secondo giorno di lezione arriva il primo. Ricordo che era un uomo anziano, un ebanista. Aveva mani bellissime».
Si specializza?
«A “La Terracielo” prendo tre specializzazioni, due in tanatoestetica, una in cerimoniere funebre».

Chi è il cerimoniere funebre?
«Nelle cerimonie laiche come commiati e saluti, colui che officia il rito».
I compiti del tanatoesteta?
«Pulizia/lavaggio. Massaggio corpo per interrompere il rigor mortis».
Ovvero?
«A volte, in caso di lunga sofferenza per malattia, rimane il dolore sul viso. Il massaggio è necessario, altrimenti sarebbe impossibile persino la vestizione. E quindi vestizione (dalla biancheria intima a salire), trucco».
Trucco viso?
«Viso, collo, mani. Le parti visibili».
Dove compra i trucchi?
«Da siti specializzati in trucchi per salme. Ho il mio kit di tanatocosmesi».
Ultime volontà bizzarre?
«Purtroppo nessuna. E io vorrei tanto, vorrei che qualcuno lasciasse scritto di essere seppellito con la minigonna indossata negli anni Sessanta o mascherato da Halloween. Vorrei che chiedessero di avere nella bara un ricordo d’infanzia o un oggetto significativo».
Anziché...?
«Libri di preghiera e rosari. In Italia, in Europa permane la concezione grigia della morte. Addirittura visivamente: si desidera che sia la testimonianza della fine. Una volta chiusa la bara, rimane il dolore. Non esiste il pensiero di un’altra dimensione. Di una continuazione gioiosa. Io lo capisco insegnando».
Nel senso?
«La prima domanda che faccio ai miei studenti è cosa sia per loro questa professione, perché desiderano farla».
Risposta?
«Per necessità economica».
Risposta che vorrebbe lei?
«La tanatoestetica è un atto di cura che rende quello che la morte ha tolto: bellezza, dignità».
Altrove è diverso?
«In America mettono le salme su sedie, letti, in atteggiamenti che avevano da vivi. E poi abiti sontuosi, parrucche, gioielli. Tutte richieste lasciate scritte».
Richieste legittime?
«Preghiere esaudite».
Non in Italia?
«Succede che non si rispetti la volontà del defunto».
A lei è capitato?
«Un uomo di sessant’anni. I familiari danno l’abito che doveva indossare, e nella tasca io trovo un biglietto con scritto: “Voglio essere vestito da donna”».
Come se lo spiega?
«L’uomo sapeva che da morto i parenti gli avrebbero destinato quell’abito».
Cosa ha fatto lei?
«In quanto professionista la mia volontà non esiste. Sono obbligata a rispettare quella dei familiari. Nel caso specifico ho vestito l’uomo con l’abito scuro. L’ho truccato, pettinato. Ma mi sono presa una liberà, un’unica libertà: mettergli lo smalto madreperlato».
Reazione dei familiari?
«Probabile che l’abbiano presa per una prassi».
Cosa ha significato per lei quello smalto?
«Una restituzione».

Altri casi?
«Una donna aveva chiesto di indossare un abito lungo da sera, e delle scarpe con il tacco. I familiari, pur avendo tirato fuori l’abito, impongono tailleur grigio e scarpe basse. Ti scontri con la fermezza di chi rimane, come vuole che quella persona appaia in pubblico».
Se avesse potuto scegliere lei?
«Le avrei messo l’abito lungo, le scarpe con il tacco. Rossetto, ombretto, sopracciglia ridisegnate. E soprattutto l’avrei pettinata diversamente. La famiglia ha voluto i capelli indietro, io li avrei lasciati sciolti, a incorniciare il viso».
In genere le danno una foto del defunto in vita?
«Una recente. Ma chi lo dice che quella persona vuole essere ricordata così? Magari vorrebbe somigliare al sé stesso giovane o al sé stesso in un momento specifico della vita, che so: il giorno del matrimonio, la volta della prima a teatro».
L’ostinazione dei familiari?
«Capita anche che cambino idea all’ultimo. Che siano indecisi: meglio quel vestito, o forse l’altro. Quelle scarpe no, o forse sì. È un momento struggente: chiaramente un tentativo di prolungare il tempo prima della bara, un modo di trattenere i morti».
Sulla decisione della bara le persone sentono maggiore libertà?
«Difatti c’è più scelta: tipo di legno, imbottitura, varietà di dettagli».
La più strana che le è capitata?
«Ricoperta di Swarovski».
Quelle dei bambini?
«Bianche. E riempite di giocattoli, come le tombe. In qualsiasi cimitero del mondo troverete giocattoli sulle tombe dei bambini».
Perché?
«È impossibile accettare l’idea che il bambino non possa continuare a giocare».

Come vorrebbe essere seppellita lei?
«Abito nero, scarpe di vernice rossa, calzini verdi fosforescenti».
Oggetti da portare con sé?
«Una bambola Lol».
Motivo?
«Da piccola rifiutavo le Barbie, non volevo davanti agli occhi l’immagine femminile stereotipata. Le Lol sono arrivate troppo tardi, ero già adulta, giusto in tempo per collezionarle, il massimo che mi sono potuta concedere».
Che cos’ha di diverso la Lol dalle altre bambole?
«Se la metti supina, da dietro, può essere tutto. Il corpo minuscolo, e asessuato. Con i gadget intercambiabili diventa qualsiasi cosa. Rappresenta l’ambiguità di genere».
Lei auspica la libertà di genere anche per i cadaveri?
«Un giorno i corpi sceglieranno di diventare ciò che vogliono. In vita e in morte».