Per lungo tempo si è parlato e scritto intorno a razze, tribù, lingue e nazioni. Poi giunsero i demografi e con loro quell’oggetto chiamato "popolazione": scomposto in numeri, famiglie, generi, età. Colpiva di una popolazione la rapida ascesa, ma anche il declino. Trionfi e catastrofi demografiche. Quando la peste nel Trecento cancellò un terzo della popolazione europea, in molti pensarono che Dio avesse voltato le spalle al genere umano. La medicina arrancava. E non c’erano ancora i demografi per misurare la voragine che la pandemia aveva scavato. La figura del demografo moderno nacque nell’Ottocento, in pieno positivismo, e da qual momento fu come se la società non potesse più prescindere dalle sue competenze sulla specie umana e la relativa capacità (o incapacità) di riprodursi ed espandersi. Fu camminando su immense distese che il sapiens innescò fin dalle origini quella crescita demografica senza la quale non avremmo avuto le civiltà. Ma chi è il demografo? Mi vengono in mente pensieri curiosi mentre leggo alcuni libri di Massimo Livi Bacci – uno studioso dall’indiscusso prestigio internazionale – trovandovi qualche risposta e la curiosità di voler parlare con lui. Livi Bacci è nato nel 1936 a Firenze, proviene da una famiglia di studiosi: «Il mio bisnonno Carlo, fondatore della rivista di Freniatria nel 1875, fu uno psichiatra innovatore; mio nonno Ridolfo, generale medico, uno studioso di antropologia; mio padre Livio, statistico e sociologo. C’era una grande abitudine alla discussione e alla critica, nonché una particolare avversione per la retorica e per le frasi fatte. Ma i campi di studio, come può notare, sono stati diversi».
Perché si è dedicato agli studi demografici?
«Forse volevo distinguermi da quello che facevano gli altri della mia famiglia. Nella mia tesi – conseguita alla facoltà di scienze politiche del Cesare Alfieri, a Firenze – discussi le caratteristiche e le cause del baby boom del dopoguerra. Mi affascinava osservare i mutamenti di una società, leggere il susseguirsi delle generazioni come eventi fondamentali della vita individuale e sociale: le nascite, le morti, le unioni, il fare e disfare le famiglie, le migrazioni. Scoprii che quel corpo mobile che ci ricomprende si poteva calcolare, misurare e interpretare nel gioco delle cause e degli effetti. Mi pareva una gran bella sfida».
Eppure la demografia non godeva di grandi simpatie.
«Paradossalmente, una certa disistima che l’ha avvolta è quella che me l’ha fatta amare. Negli anni Sessanta uno studioso di demografia era spesso considerato, anche se non veniva detto chiaramente, un cultore di temi di destra. Oppure il demografo era ridotto alla stregua di un contabile di fatti e di eventi; un utile manovale per portare mattoni alle costruzioni teoriche economiche e sociali, di competenza degli ingegneri e degli architetti. La verità è che la demografia ci aiuta a capire i meccanismi che assicurano la continuità e il rinnovo delle società umane, le loro ibridazioni, i loro cicli. Caduto il velo del pregiudizio, è diventata un pilastro per le scienze umane».
L’aver preso in esame il fenomeno del baby boom immagino l’abbia portata a confrontarsi con la società americana.
«Da lì, in qualche modo, è partita tutta la mia vicenda. Una borsa Fulbright vinta mi condusse negli Stati Uniti. Era il 1960, viaggiai in terza classe per dieci giorni, sulla Queen Frederika. Ero in compagnia di una mezza dozzina di borsisti. Il pessimo cibo che ci toccava trangugiare era compensato dalle nostre aspettative, dai sogni e dalle fantasie con cui guardavamo a quel mondo. Mi vedevo on the road come Kerouac, di cui avevo letto da poco il romanzo: stranissimo ed entusiasmante».
"Sulla strada" di Kerouac era uno dei primi esempi di nomadismo americano.
«Esemplificava perfettamente il senso profondo e l’inquietudine che spinge l’uomo alla mobilità. Ma la verità è che mi dimenticai ben presto della beat generation e passai un anno molto formativo nel campus tra docenti molto informali, biblioteche fornitissime e bellissime ragazze che giravano scalze.
Non avevo ancora percepito la durezza di quel mondo». Quando se ne accorse?
«Risalendo New York a nord della 125sima strada, tra afroamericani e portoricani, o girando per New Orleans con i tram, vedendo le toilette e i locali pubblici segregati: blacks da una parte e whites dall’altra. Fu uno shock. Capii che anche un demografo avrebbe potuto dire la sua. Percorsi per la prima volta i grandi spazi aperti. E fu entusiasmante. Imparai che in America un cretino non ferma la catena del lavoro, che continua a funzionare, mentre da noi la inceppa e la rallenta».
La storia americana è diversa, in larga parte da quella italiana, e da quella europea. In un suo recente libro dedicato ai "Traumi d’Europa" mette a confronto le catastrofi naturali con quelle politiche.
«Si ricavano aspetti interessanti, soprattutto in relazione allo scorso secolo. Quando le catastrofi politiche hanno preso il sopravvento su quelle naturali. Nel Novecento, soprattutto nella prima metà, si inverte il trauma: l’azione distruttrice delle decisioni determinate dalla politica sovrasta di gran lunga l’azione distruttiva degli eventi naturali».
E questo ribaltamento a cosa è dovuto?
«All’enorme crescita di influenza della politica sul resto della società. Essa ha rinforzato enormemente la capacità di controllo sulla popolazione, sviluppato la capacità di mobilitare le masse, potenziato armamenti sempre più letali. Sono alcuni dei motivi che hanno reso la politica uno strumento in certi casi inquietante».
Occorre distinguere tra un uso democratico e autoritario.
«Certamente le tragedie di una dittatura sono più drammatiche di quelle che si abbattono su una società aperta».
Eppure resta la sensazione di una sostanziale incapacità di trovare soluzioni stabili e di mostrarsi difficilmente all’altezza dei compiti morali che proclamiamo.
«Abbiamo goduto, come Europa e come Occidente, di settant’anni di stabilità e di crescita. La società è un organismo complesso: si compone di individui dotati di istinti, sentimenti, pulsioni estremamente diversi e variabili, con aspetti positivi e negativi. Spetta a chi ha funzioni di leadership culturale, civile, religiosa, sociale e politica temperarli e armonizzarli. Ottenendo successi e non spaventandosi dei fallimenti. Personalmente ho fiducia nell’essere umano».
Anche nei suoi errori?
«Inquietudine e curiosità sono componenti fondamentali dell’uomo, che qualche volta non si traducono in conoscenze aggiuntive, ma in arretramento e disfatte. Eppure, la specie ha saputo spesso rimediare».
Migrazioni e mobilità sono state la conseguenza di bisogno, inquietudine e curiosità. Per un demografo è un campo d’azione stimolante, disseminato di aspetti sociali, psichici, politici, religiosi. Che sintesi è possibile fornire?
«Il presupposto è che la storia dell’uomo, fin dalle origini, poggia sulle sue gambe. Gli umani camminano, si spostano, coprono migliaia di chilometri per migliorare le proprie condizioni. Migrazioni e mobilità sono state nella storia il motore del ricambio sociale, un lievito per lo sviluppo, uno strumento di diffusione delle conoscenze. Con aspetti positivi e negativi, a seconda delle epoche storiche e delle circostanze. Nella nostra epoca, gli stati autoritari o dittatoriali hanno scoraggiato, ostacolato, impedito i movimenti migratori interni e internazionali, motivati da scelte individuali. Hanno però abbondato in migrazioni forzate, ignorando la volontà e le aspirazioni delle persone».
Ma non ritiene che le migrazioni del XXI secolo abbiano qualcosa di più complicato e ingestibile rispetto a quelle dei secoli precedenti?
«Senza dubbio. Troppe diseguaglianze. C’erano pure prima, ma se ne sapeva pochissimo. Troppi conflitti, troppe crescita demografica e velocità di spostamenti, troppi rapidi cambiamenti. Il mondo è in ritardo: deve costruire, sia pure gradualmente, regole di governo dei flussi migratori, deve abolire la schiavitù che ancora esiste, difendere i diritti umani di chi si sposta».
La globalizzazione partita con il nuovo millennio sta davvero ridisegnando il pianeta?
«Penso di sì. Fino a quando la pandemia non ha dato un potente colpo di freno, il mondo virtuale avvolgeva quasi tutta l’umanità in una rete globale di contatti e di scambi. Lavoro, studio, turismo, conoscenze ne hanno beneficiato. In questa fase stiamo cercando di capire cosa ci accadrà».
Forse potrà essere utile qualche richiamo storico. Lei dedica un approfondimento al periodo 1914-1922: per l’Europa una delle fasi più catastrofiche. Segnata da due fattori: la guerra e il microbo. Il conflitto mondiale e l’arrivo della "spagnola". Che effetto ebbero sulla popolazione?
«L’impatto demografico fu terribile. Si parla più o meno complessivamente di 30 milioni di morti. A quella "carneficina" contribuirono anche la guerra civile, le carestie e lo scatenarsi del tifo. L’arrivo dell’influenza spagnola avvenne nella primavera del 1918. Portata al seguito dalle truppe americane che varcarono l’oceano in soccorso degli alleati. Fu la prima ondata e si manifestò in una forma non eccessivamente violenta».
Quanto alle altre ondate?
«La seconda fu particolarmente virulenta ed ebbe il suo picco nei mesi autunnali. Una terza ondata ci fu nell’inverno del 1919. Letale anch’essa ma con meno vittime della precedente».
Fu una pandemia mondiale?
«Coinvolse un terzo della popolazione mondiale con una mortalità nei contagiati tra il cinque e il dieci per cento. In Italia le stime dei morti di spagnola fu poco sotto il mezzo milione di vittime».
Si può fare un confronto con l’attuale pandemia?
«Ci sono alcuni tratti comuni: la natura del virus e la diffusione globale del contagio. Ma diverse sono le conseguenze. Allora i morti erano soprattutto giovani e tantissimi furono i minori resi orfani. I decessi per coronavirus saranno forse un decimo di quelli provocati dalla spagnola e per lo più di anziani. Oggi la medicina è in grado di salvare molte vite e le speranze di avere presto farmaci e vaccini risolutivi sono concrete».
Le sembra eccessiva la paura che monta?
«È amplificata dalla velocità dell’informazione. E dal disorientamento dovuto alla convinzione che a noi non sarebbe mai accaduto di dover combattere contro un nemico sconosciuto. La società di oggi mi sembra afflitta da timori e paure piuttosto che arricchita da emozioni. A volte, per reazione, sento il bisogno di dedicarmi a mondi più remoti».
Mi ha incuriosito il volume che ha dedicato qualche anno fa all’Amazzonia. Cosa ha visto in quel mondo che appassionerebbe più un naturalista che un demografo?
«È un’area immensa, misteriosa, dominata dalla natura; dove esistenza e morte sono strettamente abbracciate. Il fascino dell’Amazzonia sta nel brulicare e nel rigenerarsi della vita, in un ciclo continuo, quasi visibile a occhio nudo: acqua, pesci, limo, piante, insetti, uccelli, uomini, nulla è fermo, tutto scorre, si rincorre e prolifica. Per me è stato anche il prolungamento di belle letture fatte in gioventù».
Cosa legge di solito?
«Leggo i classici e quando posso in lingua originale. Ho sempre letto molto ma in modo disordinato. Ogni dieci anni rileggo Moby Dick. Nonostante l’impegno che vi ho profuso, trovo indigesti James, Musil e Proust».
Le piace il cinema?
«Molto. Mi coinvolge emotivamente e mi fa riflettere e sognare».
È sposato?
«Lo sono stato per cinquant’anni, fin quando sei anni fa Nicoletta ci ha lasciato. Ho due figli, Lorenzo e Caterina e cinque nipoti, tutti maschi».
Su cosa sta lavorando?
«Ho un paio di progetti, in cerca di un’anima e di qualche scintilla. Penso che ritornerò presto sui temi iberoamericani».
Per un demografo Dio che cos’è?
«È una domanda troppo grande per me».
Lei ha studiato le popolazioni che invecchiano, come affronta la sua vecchiaia?
«Cerco di assecondarla e viverla con profitto. Il grande Pachacuti disse: "Quando l’età sopravvenne, invecchiai / quando dovetti morire, appassii e morii". C’era molta saggezza nel fondatore dell’impero Inca».