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 2020  ottobre 31 Sabato calendario

QQAN20 Su "Armoniose bugie" di John Updike (Sur)

QQAN20

Nella seconda metà del Novecento nel paesaggio culturale americano, o più precisamente, nord-americano, fiorisce una messe di scrittori, da Bernard Malamud a Kurt Vonnegut, da Norman Mailer a John Barth, a Saul Bellow, a Thomas Pynchon e James Purdy, e Sylvia Plath e Susan Sontag, per citarne alcuni e alcune, che con diversa intensità, dovuta al loro individuale talento, illuminano il medesimo inquinamento spirituale, intellettuale e mentale del loro habitat. Con occhi impietosi, questi scrittori e scrittrici tutti diversi, ripeto, l’uno dall’altra, descrivono il degrado, diciamo così, del mondo in cui vivono, in cui giorno dopo giorno vedono deperire il” sogno americano”. Dagli anni cinquanta in poi del Novecento, come dopo l’esplosione di una bomba, i cascami e i detriti di quel sogno ricadono inerti su un paesaggio desolato, e spengono via via le ultime fiamme della speranza antica, che aveva nutrito l’immaginazione degli scrittori americani classici e moderni; la speranza antica essendo per l’appunto quella di fondare un nuovo mondo, differente.
Tra questi c’è John Updike, di cui esce ora per i tipi di Big Sur, per le sollecite cure di Giulio D’Ancona, e la traduzione ( ottima) di Tommaso Pincio, la raccolta Armoniose Bugie, che raccoglie saggi e recensioni e interventi dello scrittore scomparso nel 2009.
Non tutti i saggi hanno lo stesso interesse, e in particolare non tutte le recensioni reggono al passaggio del tempo. Ma il tono è verace, e l’intento è onesto, e a modo suo Updike ci convince dell’utilità della fiction, della sua necessità, del suo contributo all’intelligenza collettiva di un popolo. Sì, è importante leggere, come si fa a dubitarne? E soprattutto come fa a dubitarne uno scrittore freelance, che vive, nel senso che si mantiene, con quel lavoro? Perché Updike è uno scrittore che sta sul mercato. È senz’altro un dato di fatto – paradossale, ma pur sempre un dato di fatto: lo scrittore freelance che, come la definizione sottintende, dovrebbe essere indipendente, è in realtà quello che più dipende dal mercato. Lo scrittore freelance deve “vendersi”, deve cioè” vendere” i suoi racconti. «Ciò che uno scrittore vuole è andare in stampa» confessa Updike a noi, che più o meno lo immaginavamo. «È proprio questa partecipazione al mondo del commercio e dell’industria» a eccitare «l’ego dello scrittore», insiste.
Lui del resto comincia così la sua carriera. Da aspirante scrittore aveva un desiderio preciso: pubblicare sul New Yorker. E accadde: nell’estate del 1954 ricavò ben cinquecentocinquanta dollari dalla transazione. Calcola che vendendo sei racconti l’anno al New Yorker potrà mantenere la sua famiglia con un stile di vita modesto, ma decoroso. Se modesta è l’ambizione, non lo è però l’aspirazione, che è per l’appunto quella di vendere qualcosa che allora non aveva mercato, e cioè, la vita di «una città di provincia, che non fosse del Sud». «La mia missione era di alzarmi e gridare: c’è vita qui, una vita che va presa seriamente…».
È questa rivendicazione che lo portò a scegliere la professione di scrittore di racconti e di fiction, come fosse weberianamente, una vocazione. Intorno alla quale in effetti Updike discetta con senso etico e pratico, analizzandone cioè il costume, diciamo così; o i diversi costumi, i diversi modi in cui si può esercitare l’arte della fiction.
Non è alla Henry James, di certo, il suo modo; Updike non scrive L’arte del romanzo. Se pensa alla letteratura, lo fa per rispondere a un invito: ad esempio, viene invitato al BookExpo America, a Washington, e va, come farebbe per l’appunto un onesto addetto al mestiere. E si congratula coi librai e giustamente, perché sono loro che vendono i libri, anche i suoi. E ricorda la meraviglia delle librerie attorno a Harvard Square, quando arrivò al college. E ora che vive in una piccola città del New England, elogia la libreria indipendente che lì esiste, come un paradiso per folli. Si congratula coi lettori dilettanti, li incorona come custodi di civiltà, a loro modo eroici, perché attraverso i libri amano la libertà.
Nei vari interventi è sempre, in tutto e del tutto, per usare una sua parola, un” professionista”. Lui rende conto di una pratica, non fa teoria. E io leggendo mi chiedevo: ma uno scrittore, quando “pensa” alla letteratura? Perché è chiaro che uno scrittore pensa sempre alla letteratura; ma quando davvero lo fa? Forse quando scrive. Forse è nei racconti, nei romanzi che “pensa”.
In questi scritti, è sicuro, Updike non” pensa” alla letteratura, ma piuttosto prende il piglio dell’onesto impiegato di quel complesso commercio che si svolge nel mondo dell’editoria. In altre parole, più che i panni dello scrittore, veste quelli dell’addetto al business, in senso alto. Beninteso.