la Repubblica, 31 ottobre 2020
La Medusa del #MeToo
Quando Esiodo narra la vicenda di Medusa, nella Teogonia, al suo nome associa un epiteto assai cupo: «dal triste destino». Siamo alle origini stesse della poesia greca, circa l’VIII secolo a. C., e in questi pochi versi prende forma, almeno per noi, la storia di Medusa: creatura dal destino triste ma insieme orrido, a un tempo paradigma di fascinazione e di terrore.
Esiodo la dice nata da Ceto assieme a due sorelle, tutte e tre accomunate dal nome di Gorgoni. Di loro però solo Medusa aveva natura mortale, non le altre due. Con lei «si giacque» Posidone e la scena è in verità idilliaca, perché l’amore si consuma sopra un morbido prato e tra i fiori di primavera. Ma a questo punto inevitabilmente ci si chiede: com’è possibile che Posidone abbia potuto amare Medusa? Osserviamola nelle rappresentazioni che ce ne ha lasciato la tradizione figurativa greca. La Gorgone-Medusa è infatti un mostro, ha bocca smisuratamente larga, zanne animalesche, lingua sporgente, chiome serpentine, i suoi enormi occhi irraggiano terrore. Quando la vediamo raffigurata a figura intera (e non solo il suo volto, il temuto Gorgoneion ) Medusa ha un’insolita posa frontale e pare che stia correndo, con le ginocchia flesse: i genitali – brutalmente – sono bene in vista. Siamo insomma di fronte a un’immagine a un tempo grottesca e spaventosa, ripugnante e ridicola. Sarà questa la Gorgone a cui Perseo, secondo il mito, taglierà un giorno la testa, ricorrendo a uno stratagemma che lo metterà al riparo dal potere più temibile del mostro: lo sguardo, capace di pietrificare qualunque cosa incontri. L’eroe però non lo affronterà faccia a faccia, e servendosi del proprio scudo come di uno specchio gli taglierà la testa lasciandosi guidare dall’immagine riflessa. L’opaca superficie, infatti, smorzerà la malefica forza di quegli occhi e, sempre senza guardare, dopo aver mozzato il capo di Medusa l’eroe lo caccerà nel sacco che si è portato dietro per l’occasione. Già, ma l’amore di Posidone per Medusa, comunque, come si giustifica?
Una spiegazione ce la dà il Perseo di Ovidio. Che narrando nelle Metamorfosi le proprie imprese dirà che Medusa in realtà fu un dì una splendida fanciulla, da tutti desiderata in particolare per il fulgore dei suoi capelli. Posidone la violentò nel tempio di Atena e la dea non si adirò perché la ragazza aveva subito uno stupro, ma solo perché il dio aveva osato commetterlo dentro il tempio di lei, la più casta delle dee. Non punì dunque il violentatore, ma la fanciulla violata, mutando i suoi capelli – gloria e vanto della sua bellezza – in orribili serpenti. «Triste destino» dunque fu quello di Medusa, Esiodo aveva ragione. Fanciulla violentata, cui non fu resa giustizia ma venne punita per lo stupro subito, mutata in mostro destinato un giorno ad essere decapitato, mentre dal collo, assieme al fiotto del suo sangue, balzeranno fuori i frutti dell’antica violenza: Pegaso, cavallo alato, e Chrysaor, il gigante dalla spada d’oro.
Nel seguito della tradizione iconografica antica, che è molteplice, qualcosa dell’antica bellezza di Medusa venne però emergendo. Lo testimonia in particolare la celebre Medusa Rondanini, il cui volto non ha nulla di mostruoso ma è regolare, femminile, pur se di una bellezza marcatamente patetica, mentre attorno al suo viso i serpenti continuano ad avvolgere le proprie spire. È in fondo questo il volto di Medusa che ci ha reso familiare la celebre statua di Benvenuto Cellini: un nerboruto Perseo che, brandendo la spada nella destra, con la sinistra protende una testa femminile il cui volto è patetico, seducente e terrificante.
Adesso, però, la storia di Medusa, anche quella iconografica, è nuovamente mutata, e stavolta in modo davvero radicale. Davanti al tribunale dove è stato condannato Harvey Weinstein, a New York, sorge ora una statua dell’artista italo-argentino Luciano Garbati, raffigurante una donna che regge nella sinistra una spada, nella destra una testa maschile. Questa figura, che ambisce ad essere un rovesciamento del Perseo celliniano, costituisce soprattutto una radicale inversione del mito. Stavolta è Medusa che ha decapitato Perseo, non il contrario, e fieramente ne esibisce il capo mozzo.
Questa statua la si può amare o meno (alcuni la trovano anzi assai brutta) ma per certo non può stupire chi conosce come funzionano i racconti del mito: in cui le versioni, le distorsioni e perfino i rovesciamenti si moltiplicano. Si immaginò ad esempio che non la vera Elena, ma un suo fantasma d’aria fosse andato a Troia assieme a Paride. Certe inversioni, però, non sono gratuite invenzioni narrative, ma servono a segnalare e a comunicare profondi sommovimenti nei sistemi culturali. Tanto che, nell’omonima tragedia di Euripide, un soldato acheo su Elena esclama: «Dunque abbiamo combattuto dieci anni solo per riprenderci un fantasma?». Ad Atene il popolo era stanco della guerra in corso: e il poeta espresse la sua critica attraverso l’inversione di un racconto tradizionale.
In una cultura come quella odierna, in cui le donne reclamano finalmente giustizia per le secolari violenze subite da parte dei maschi, ecco che questo nuovo sentimento ancora una volta viene espresso tramite il “rovesciamento” di un mito tradizionale. Operazione geniale, certo, ma anche discutibile. Davvero per cambiare la cultura maschile la cosa migliore è rappresentare una donna che a sua volta taglia la testa a un uomo?