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 2020  ottobre 31 Sabato calendario

QQAN93 QQAN80 La sfida alle grotte di Andrea Gobetti

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Da quasi mezzo secolo Andrea Gobetti è il narratore delle grotte. Gobetti non è così vecchio, ma ha cominciato a scrivere e andare in grotta da ragazzino. Appartiene alla generazione che per anticipare i tempi ha bruciato tutto prematuramente, così da trovarsi a trent’anni con una vita dietro le spalle, strabordante, e una strana esistenza davanti, un po’ da reduci e un po’ da uomini liberi. «Alla mia età dovrei essere in pensione», scrive in questa spumeggiante autobiografia, che un po’ si lega al primo libro Una frontiera da immaginare, del 1976. «Dovrei essere in pensione – confessa –, se avessi mai lavorato».
Sdegnando i mezzi informatici e le saggezze facili, Gobetti si definisce uno «scrittore pattinatore del foglio che pratica il corsivo in piano» e un ex ragazzo che scopre nella vecchiaia «un porto facile da infilare, ma che quando ci sei dentro non ci stai comodo».
Sono due battute del giullare geniale, vere e false allo stesso tempo, perché il tempo e l’età contano poco in fondo alle grotte, dove sparisce ogni riferimento alla vita di superficie e si è comunque infinitamente giovani nei confronti della Terra. Gobetti continua a giovare narrativamente di questo paradosso, come se scrivere di grotte e speleologia portasse alla legittima liberazione dalle convenzioni stilistiche. Oltre che narratore ipogeo, è stato anche saltimbanco, istrione, scalatore, distruttore di miti, inventore di altri miti e soprattutto uno che se ne frega delle opinioni altrui. Se il nonno Piero era il difensore assoluto dell’etica politica, Andrea è il coltivatore di un’etica che lo porta ad amare chiunque remi controcorrente, a cominciare da sé stesso e da quell’insulsa e fantastica pratica esplorativa che consiste nel guardare la luce dal luogo più buio che esista. Se le persone cercano il cielo, gli speleologi per trovarlo se ne allontanano.
Lo stile dello scrittore non è cambiato, sempre morbido e irriverente. Sono cambiati i posti (nel libro ci sono le montagne e le grotte dell’Albania, oltre alla Toscana dove Gobetti vive e coltiva olivi, e altri luoghi più o meno remoti) e sono invecchiati i personaggi, qualcuno è addirittura morto battaglia facendo, ma l’autore sa preservare gli amici con i filtri dell’immaginazione e dell’ironia, rendendoli a suo modo immortali. Così aveva fatto molto tempo fa con l’invenzione del Mucchio Selvaggio, la rivoluzione alpinistica torinese di cui forse non si sarebbe accorto nessuno se Gobetti non avesse escogitato una divertente epopea di indiani metropolitani, assecondando lo spirito trasgressivo dei protagonisti.
«Se fossi diventato una calamita, si sarebbe scatenata una calamità» scrive oggi di sé, ed effettivamente non era facile, neppure sano, stare dietro ai ragazzi scalmanati del Sessantotto di roccia e di piazza, tra cui lo stesso Gobetti e Massimo Demichela, detto Grundal, o quel signore dello spirito e della contraddizione che si chiamava Roberto Bonelli, detto Cavallo Pazzo, che per contraddizione – appunto – detestava essere classificato politicamente. Una delle pagine più gustose di Dal fondo del pozzo ho guardato le stelle racconta proprio del militante Gobetti e dell’anarchico Bonelli, rispettivamente imbarazzati davanti a una manovra di volantinaggio. Sopra tutti, ma non in cielo, emerge la figura carismatica di Gian Piero Motti, l’ideologo del Nuovo Mattino dell’alpinismo, cui Gobetti dedicò parole delicate dopo la morte per suicidio: «Torino non premia i suoi figli più delicati, alti e fragili artisti se non con il dono dell’oblio… Tardi, fino a tardi nella notte si continuò ad essere tristi, nella città delle officine, perché quell’uomo alto, fragile e bello non aveva sopportato il nostro dolore quotidiano…».
Non sono poi così cambiati i personaggi e non s’è arreso lo stile sardonico e aristocratico di Andrea Gobetti, anche se non si può negare che il mondo di cui scrive non esista più. O forse è necessario più di prima, in quanto bisogno: di fantasia, anticonformismo e antibanalità del dire e del fare. In un mondo in cui tutti corrono e si allenano ossessivamente, Gobetti si vanta di non averlo mai fatto. In un tempo in cui l’immagine precede addirittura i portatori d’immagine, l’autore ci parla dell’immaginazione come antidoto indispensabile al rincoglionimento di massa. Non so se abbia mai veramente creduto che la fantasia avrebbe rovesciato il potere, ma certamente l’ha coltivata e incoraggiata, e si è lasciato rovesciare.
Resta un’ultima domanda: se non esistesse quel luogo in cui «il tempo non è più quel mostro furioso che in superficie divora uomini e panorami, e pare invece paziente, fiero di sé mentre dedica tutta la sua arte agli arabeschi del vuoto», di che cosa scriverebbe l’ultimo giullare? O meglio, quale altro luogo ci toccherebbe inventare? Qui lo sforzo di fantasia passa al lettore, e credo che l’autore, sotto sotto, se la rida.