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 2020  ottobre 31 Sabato calendario

Diario di scrittura di Roberto Vecchioni

Furono giornate meravigliose fuori dal comune, dal normale intenderci io e loro, i ragazzi, fra quattro mura, fra regole, interrogazioni, fughe al cesso e quarti d’ora d’aria.
Fuori dal mondo e forse anche dal tempo.
Furono formidabili e, giustamente rare, dieci quindici in tutto all’anno, perché la scuola, l’insegnamento, sono ben altro. La scuola è un porto e un porto deve restare, ma in quelle «giornate di follia» che inventammo si andava alla deriva, senza punti di riferimento; ci si proponeva uno start, una parola, un argomento, come ad esempio «vita», «morte», «Ulisse e noi», «ma che ci fanno le stelle?», e ci si allargava a nord a sud a est e a ovest, passando per altre stanze del pensiero, mischiando sacro e profano, bufale ed intuizioni in una scriteriata libertà infantile, un «fuori tutti», insomma, nei parchi, nei giardini, nelle bettole, negli ospedali, e perfino, una volta sola, in un cimitero.
Correggemmo subito il tiro. Tutta quella libertà, quello spremere fantasia finiva spesso in una Babele, il gioco usciva dai confini e diventava «bailamme».
Così i temi cominciammo a proporli giorni prima, ma il principio restava lo stesso: non si doveva mai sguazzare nell’ovvio, nel già detto, nel risaputo, ma proporre un’alternativa storica alla storia, un altro corso, una possibilità remota ma plausibile: insomma come in una sorta di «giardini dei sentieri che si biforcano». Ero io a provocarli, io che gli insinuavo il tarlo dell’ipotesi fantastica eppure possibile: «e se Ulisse fosse stato drogato?» e «se Socrate fosse morto solo?» o, peggio, «voi come avreste scritto i Vangeli?».
Chiamammo subito quegli appuntamenti fra cultura e delirio «giornate di follia».
Una giornata di follia non era una lezione, seppure all’aperto. Era gioco, sfida, provocazione. Era gettare un sasso e contare i cerchi che si allargano sull’acqua; porte che si aprano su altre porte, senza fermarci mai alla prima.
Il giardino di Borges, appunto. Una finta finzione che conduce a un’altra verità.
La «giornata di follia» era l’invenzione del probabile, il «clinamen», lo scarto della pernice al suono dello sparo, creazione e ricreazione di un plausibile diverso, specchi che riflettono altri specchi, e infine teatro, teatro totale. Interrogarsi cioè sui falsi miti, domandarsi da dove ci siamo beccati questo «quotidiano», guardare da un altro angolo, giocare a testa e croce con la filosofia, con gli uomini, con le parole. «Possibile che i Mille abbiano indossato una sola camicia da Quarto a Palermo?»; «Seneca in Corsica, tra le varie consolazioni spedite a tutti, un bagno se lo sarà fatto?»; «la Merini è un angelo?».
A distanza di anni, perché di anni ne sono passati, pescando tra il cumulo di nostalgie che ti abitano dentro, ho ritrovato quei giorni di fine anni ’80. Stavo per lasciare il mio liceo Beccaria a Milano, stavo per trasferirmi. Inventammo questo «ludus» infinito come fossimo tutti su di una nuvola trasportata dal vento: non sapevamo mai dove saremmo finiti, se saremmo diventati nembi o cumuli o cirrostrati, se saremmo svaniti al sole o mutati in pioggia estiva sottile.
Ho sentito così forte il desiderio di tornare là che mi sono messo a buttare giù quei ricordi confusi, sparpagliati, sentendo, man mano che andavo avanti, brividi veri di emozione crescente. Sordo ai rumori, alle interferenze, alle distrazioni, incantato come in una scrittura meccanica, precipitato e avvolto in un altro tempo, in quel tempo.
Non era mia intenzione scrivere un romanzo. Non volevo assolutamente calarmi in una storia retorica e lacrimosa di solitudini che s’intrecciano, di sociologia d’accatto. I ragazzi, pensai già dall’inizio, sarebbero stati ombre, niente vicende personali, men che meno spettacolari. Mi venne quasi subito l’idea di trattarli come maschere fisse e celarli sotto gli pseudonimi di pittori famosi. Perché pittori? Perché dipingevano con il pensiero, dipingevano tutti le loro idee, ognuno con i propri colori, ognuno con il proprio stile, quello più consono, che fosse surreale o figurativo o paesaggistico o ritrattista o cubista. I miei studenti erano pittori e in quella «nuvola» capii che insegnare voleva dire non solo dargli cose, dargli storia, ma fargli venir fuori ciò che avevano dentro di già, e che si erano solo dimenticati di avere.
Niente romanzo, una sequenza di quindici lezioni, che mi fa fatica chiamare «saggi», unite tra loro da un filo ben visibile di curiosità che diventava via via più passione. Si svariava, e tanto, dall’origine della parola, al De André sconosciuto, dalle puttanate linguistiche, alle somiglianze ritmiche tra poesia e musica, partendo all’avventura tanto che neanche io a volte immaginavo dove saremmo andati a parare.
Eppure nel non-romanzo c’è un romanzo nascosto, c’è un tema ancora borgesiano. Il giovane professore incontra il vecchio professore che è il suo specchio, la sua proiezione nel tempo e questo racconto è l’unico vero fulcro narrativo. «Come un gatto con un topo in bocca» congiunge l’istinto alla verifica, sposta l’asse al presente: il giovane improvvisa, il vecchio sa, sa soprattutto cosa è l’amore, l’ultimo, quello definitivo, oltre i sensi e gli inganni, nella purezza di un corpo femminile guardato come fosse un’anima. Léonard Bataille sono io stesso che chiudo un cerchio e supero la contraddizione tra felicità e dolore.
E così questo pamphlet di stravaganze e passioni corre verso l’unica sacrosanta direzione: la cultura non è «sapere», ma «cercare», cercare all’infinito. Cercare in un solo verso il vero strazio di Catullo, farlo nostro, o cercare in una preghiera come il «Pater Noster» quello che veramente voleva dire e ci è sfuggito o in una misteriosa parola la fatica di nascere e fare figli simili a lei.
E così alla fine degli anni ’80 insieme a questa masnada di innamorati di «quella» cultura abbiamo smitizzato e riscostruito, abbiamo guardato nelle stanze disabitate di un enorme palazzo, tra il buio di Montale «nella casa dei doganieri» e il carrettiere di Leopardi che svanisce in un canto sempre più fioco, e abbiamo trovato magico e inaspettato un sorriso, quello del tabaccaio di Pessoa. Sì, cadrà la sua insegna come al pari morirà la poesia di Fernando.
Ma il sorriso resterà per sempre.