Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2020  ottobre 31 Sabato calendario

QQAN30 QQAN20 La biblioteca di David Bowie

QQAN30
QQAN20

Negli anni Settanta David Bowie viaggiava ovunque, e sempre in treno o in nave, con alcuni bauli che contenevano la sua biblioteca personale. Nel sistema rigorosamente classista della Gran Bretagna della sua infanzia, aveva frequentato scuole buone, per i figli dei borghesi suburbani, non ottime. Ma era diventato un avido lettore, e un appassionato di cinema e d’arte, curioso e abile nello scegliersi i maestri. La lista dei cento libri capitali che Bowie compilò nel 2013, non fu un peccato di hybris. Semmai, un’autobiografia.
L’anno è cruciale: nel 2013, l’8 gennaio, giorno del 66° compleanno, appare improvvisamente una sua canzone che rievoca gli anni berlinesi, a quasi dieci anni dall’ultima uscita, dopo l’infarto e il graduale inabissamento in una dimensione di vita molto privata. Due mesi dopo uscirà l’album The Next Day e partirà dal Victoria & Albert Museum di Londra la mostra itinerante «David Bowie Is», che lo colloca tra gli immortali già con il titolo, «David Bowie è» (sarebbe morto meno di tre anni dopo, il 10 gennaio 2016). Alla seconda tappa, in Canada, apparve la lista dei cento libri che lui considerava i più importanti e influenti, quelli che l’avevano fatto ciò che era.
Si è parlato molto di questa biblioteca ideale, per la quale oggi basterebbe un Kindle, altro che bauli. Duncan Jones, il figlio regista di Bowie, aveva anche lanciato l’idea di leggere tutti i libri, uno per uno, e discuterne su Twitter. Partì dal thriller storico Hawksmoor di Peter Ackroyd, si stancò presto. Forse il modo giusto per affrontare la questione è quello scelto dal giornalista inglese John O’Connell, che ha incrociato i titoli con la vita e l’opera di Bowie in un libro in cento capitoli ora uscito in Italia (Il book club di David Bowie, Blackie, pp. 304, € 19,90).
Bowie fu uno straordinario artista pop, forse il più grande: è possibile godersi Heroes, tra le sue canzoni più celebri, senza sapere che i delfini di cui parla il testo sono quelli di Alberto Denti di Pirajno, nato alla Spezia da padre siciliano e madre inglese, medico del Duca d’Aosta poi funzionario coloniale in Somalia, Eritrea, a Tripoli, e del suo A Grave for a Dolphin, «La tomba del delfino», storia d’amore romantica e triste tra un soldato italiano e una ragazza somala. Ma saperlo aiuta ad allargare gli orizzonti, a collocare il più importante artista pop britannico dopo i Beatles (dopo anche in senso cronologico) nella dimensione più giusta, quella di un protagonista della cultura che ha frantumato l’antica distinzione tra alto e basso.
Bowie fu un uomo del Novecento, sulla sua pelle di performer ci sono tutte le cicatrici del secolo. Il titolo più antico della sua lista è l’Iliade di Omero, il più recente The Age of American Unreason di Susan Jacoby, uscito nel 2008, profetico saggio sul tragico abbassamento di livello della conversazione pubblica nell’era digitale. Oltre a Denti di Pirajno, due sono gli italiani: Dante (l’Inferno) e Tomasi di Lampedusa con Il Gattopardo. Il grosso della lista è costituito dai punti fermi del modernismo: La terra desolata di T.S. Eliot, William Faulkner (Mentre morivo), Lo straniero di Camus, Lolita di Nabokov, Il grande Gatsby di F.S. Fitzgerald, Herzog di Saul Bellow, L’amante di Lady Chatterley di D.H. Lawrence, Christopher Isherwood (Il Signor Norris se ne va), John Dos Passos (Il 42° parallelo). George Orwell è in lista con due titoli (1984 e i saggi), Buio a mezzogiorno di Arthur Koestler testimonia l’interesse per la Russia e il totalitarismo sovietico, così come La tragedia di un popolo di Orlando Figes e Viaggio nella vertigine di Evgenija Solomonovna Ginzburg, fino alla pornografia dissidente di Octobriana and the Russian Underground di Petr Sadecki. I fumetti, a proposito, sono presenti con tre riviste: Beano, Viz e Raw.
Interessanti sono i nuovi classici di lingua inglese che Bowie finisce forse inconsapevolmente col proporre, e qui dal moderno possiamo al post-modern: si va da Arancia meccanica di Anthony Burgess, che è del ‘62, a Martin Amis (Money), Ian McEwan (Fra le lenzuola), John Kennedy Toole (Una banda di idioti), Julian Barnes (Il pappagallo di Flaubert), Don DeLillo (Rumore bianco), Michael Chabon (Wonder Boys), Sarah Waters (Ladra). C’è un certo gusto per l’occulto e la magia: Bowie, come moltissimi rocker britannici, fu un cultore del re degli occultisti Aleister Crowley, che però non appare tra i prescelti. Appare invece, a proposito di diavoli, Il Maestro e Margherita di Michail Bulgakov. È importante e impeccabile il gruppo di testi di critica rock (tra gli autori Nik Cohn, Greil Marcus, Charlie Gillett, Peter Guralnick e Jon Savage), non manca Sulla strada di Jack Kerouac, scritto sotto l’effetto del jazz e di altri eccitanti, senza il quale non esisterebbero né Dylan né il rock. Glielo aveva consigliato il fratello maggiore Terry, schizofrenico, morto suicida nel 1985. Per Bowie era stato il primo punto di svolta, a 12 anni: letto quel libro, decise di mettersi a dipingere e di imparare a suonare il sax. Il resto, come si dice, è storia.