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 2020  ottobre 30 Venerdì calendario

Lunga intervista a Woody Allen

Userò, per questa intervista a Woody Allen, frasi del film Rifkin’s Festival. Frasi pronunciate, per lo più, dall’alter ego che il regista ha scelto per rappresentarlo. È un attore formidabile, Wallace Shawn. Nella storia è un professore di cinema avanti con gli anni e, in verità, di non notevole prestanza fisica che va, quasi costretto, al Festival di San Sebastián per accompagnare sua moglie, interpretata dalla brava e bella Gina Gershon. La signora è la press agent di un giovane e ambizioso regista, osannato da tutti come un magnifico talento del nuovo cinema. Il professor Mort Rifkin, questo il nome scelto per Shawn-Allen, ovviamente lo odia. Pesa, nel forse meschino sentimento, che il celebrato nuovo autore sia bello, giovane, sfrontato e chiaramente ingaggiato in una liaison con la moglie del docente. I dialoghi tra i rappresentanti di queste due generazioni, di questi due mondi, sono molto divertenti. Il film è intriso di nostalgia, forse il vero mondo di Allen, di fastidio per un certo «spirito del tempo». E per una certa tendenza alla banalità che, da sempre, Allen combatte con lo strumento dell’umorismo.
Nel suo film il professore, cioè lei, si lamenta perché vengono costantemente ignorate le grandi domande della vita, quelle che neanche la politica sa intercettare. Quali sono?
«Sono le stesse grandi domande che si pongono tutti, domande ontologiche: cosa significa il fatto che io sia qui? Che cos’è la vita? Quale ne è lo scopo? Tutte le domande che riguardano l’essere, il significato della vita. E il suo vuoto, la sua mancanza di significato, la sua banalità. In fondo a cosa si riduce tutto questo? Sono tutte domande ontologiche, quelle più profonde. Quelle che hanno a che fare con la ricerca di senso, più importante dell’autostima».
Cosa pensa di questa crisi mondiale, dell’arrivo di questa pandemia che sta mutando la vita e le relazioni dei moderni?
«È un incubo, una cosa veramente terribile, inimmaginabile. Non la stanno gestendo bene. Non si può però solo parlare dei difetti della cattiva gestione, sarebbe stato un incubo per chiunque. Non ha provocato altro che morte e sofferenza in milioni di esseri umani, e il martirio delle morti in totale solitudine. Mi auguro solo che si possa trovare una via d’uscita e che l’epidemia non continui a moltiplicare i suoi effetti e a precipitare l’umanità nel gorgo di dolore che in questi mesi ha ingoiato centinaia di migliaia di vite. La mia speranza, ma anche la mia convinzione, è che la situazione migliorerà man a mano che la scienza farà progressi. Ma fino a quando questo non succederà sarà un incubo per l’umanità intera».
Ricordo una serie di sue battute su Dio. È uno dei suoi soggetti preferiti. Ad esempio: «Non solo Dio non esiste, ma provate a trovare un idraulico la domenica. Sono agnostico, ma credo un po’ anche nell’ateismo. Mio padre ha preso da sua zia Mary… Rifiutava la Bibbia perché diceva che il personaggio centrale non era assolutamente credibile. Dio è morto, Marx è morto … e anch’io oggi non mi sento molto bene! Grazie a Dio, sono ateo. Io non so se Dio esiste. Ma se esiste, spero che abbia una buona scusa. Se viene fuori che c’è un dio, io non credo che sia cattivo, credo che il peggio che si possa dire di lui è che è un disadattato». In Rifkin’s Festival lei torna sul tema con la risposta del protagonista a un rabbino che lo rimprovera di non essere all’altezza delle attese di Dio. Il professor Rifkin risponde: “Dio? Con quello che ha combinato, può solo parlare col mio avvocato”. Cosa ha combinato Dio?
«Vorrei ricordare che state parlando ad un ateo. Se davvero ci fosse stata la creazione del mondo, dell’universo, così come esistono e li conosciamo, sarebbe un delitto. Non è certo il mondo migliore possibile. Scherziamo? È un mondo orribile, brutto, terrificante, triste, insignificante per cui, se qualcuno o una qualsiasi forza ne è responsabile, quella forza particolare, quell’entità responsabile dovrebbe risponderne ad un giudice, anche superiore ad essa».
Quale è lo stato di salute del cinema, oggi?
«Credo che nel cinema americano ci siano tanti artisti. Fantastici registi, sceneggiatori, attori, attrici. Ma la struttura nella quale lavorano è diversa dal passato, più fragile. Anni fa il cinema era l’intrattenimento principale negli Stati Uniti, forse in tutto il mondo. Per questo il modo di lavorare degli artisti nel cinema funzionava, la gente andava al cinema numerosa ed il cinema aveva un grande impatto sulla cultura e sulla vita quotidiana, politica, sentimentale delle persone ovunque sulla Terra. Un effetto importantissimo. Poi la televisione ha cominciato a prendere il sopravvento ed il cinema è diventato meno attraente, meno seducente, meno importante. La gente non voleva più andare al cinema perché costava troppo, perché era troppo complicato, perché le persone in fondo potevano divertirsi senza la fatica di uscire di casa. Gli schermi sono diventati sempre più grandi, il suono a casa è diventato ottimo, chi operava in televisione ha cominciato ad investire più fondi nelle produzioni. Il cinema, come fenomeno culturale, ha cominciato a morire e le sale hanno cominciato a chiudere, una dopo l’altra. I film dei grandi cineasti europei non venivano importati più con la stessa frequenza negli Stati Uniti perché le sale non esistevano più, le persone non uscivano più per andarli a vedere, preferivano restare a casa a guardare la televisione. Per questo credo che la condizione del cinema oggi non sia affatto buona. Non è che manchino le persone: i cineasti sono ugualmente validi, solo che non hanno la possibilità di lavorare e di crescere come erano soliti fare. Pensi ad autori emersi anni fa che sono diventati ottimi registi, come Martin Scorsese. Se Martin Scorsese cominciasse oggi non avrebbe le stesse opportunità dei suoi inizi. Sarebbe comunque dotato dello stesso talento, ma non avrebbe le stesse possibilità di lavorare nel cinema, di sperimentare, di sbagliare. Sono condizioni produttive che non esistono più e quelle che ci sono stanno gradualmente svanendo, anche mentre lei ed io parliamo. Per cui penso che la condizione del cinema oggi non sia in nessun posto del mondo come è stata, dal dopoguerra, per quei cineasti europei che hanno influenzato i registi americani. Guardi che la loro influenza sul cinema americano è stata enorme. Il cinema americano è diventato migliore grazie a quello europeo. Un tempo, nei luoghi di incontro, si discuteva dell’ultimo film uscito. Ora si parla più facilmente dell’ultima serie trasmessa da una piattaforma. Bernardo Bertolucci diceva: “Le serie che vedo sono più belle di quasi tutti i film hollywoodiani. Anzi, le aspetto con ansia, e non aspetto più i film, nemmeno quelli con cast stellari. Trovo nella fiction quello che non vedo più al cinema. I bei film di questo momento per me sono dentro le serie, hanno riconquistato i tempi che il cinema ha fatto a pezzettini, ingoiato e fatto sparire; i tempi della serialità sono quelli del cinema che amavamo”».
Lei vede le serie? Le piacciono?
«Non le guardo. Non per qualche ragione particolare, semplicemente perché non mi interessano. Quando esco a cena e poi torno a casa sono stanco, per cui guardo i notiziari per una mezz’ora e poi vado a dormire. Ma capisco quello che dice: è possibile, tra qualche anno, che la maggior parte delle famiglie, forse tutte, avrà il cinema, o qualcosa che gli assomiglia, in casa. Schermi enormi ad alta definizione, suono eccezionale. E i migliori registi lavoreranno non tanto e non solo per far uscire i film al cinema. Nelle sale magari il film verrà proiettato per un paio di settimane come favore agli esercenti o come lancio. Ma i finanziatori non vogliono il film al cinema, lo vogliono trasmettere in televisione, e questo è ciò che alla fine succederà: faranno i film che andranno direttamente in televisione. Bertolucci era nel giusto: il cinema che oggi c’è, in futuro esisterà come serie televisive. O magari come film fatti per la televisione. Mi sembra inevitabile perché, per quanto si argomenti pedagogicamente che alla gente piace uscire, cenare, andare al cinema e stare seduta con tanta altra gente, non è solo così. Non è più così, purtroppo. Quando si fanno i sondaggi si scopre che le persone non amano tanto uscire di casa. Preferiscono piuttosto stare nel proprio salotto. Magari invitano degli amici o stanno con la propria famiglia. Non vogliono fare la fila o spendere una fortuna per acquistare i biglietti per i figli e per sé stessi, ma preferiscono spingere solo un pulsante, accendere un maxischermo ed avere tutta la famiglia seduta quando si vuole e non negli orari stabiliti dalla sala cinematografica. E poi è il trionfo delle possibilità: quando ne hanno voglia, spingono un pulsante, in base al loro umore, e compare il film che vogliono, quello più in sintonia con il loro stato d’animo. Può essere una inedita serie televisiva, un nuovo film girato da un regista di prim’ordine come Steven Spielberg per la televisione, o si può guardare Hamilton, il musical, direttamente, o anche un film di Michelangelo Antonioni. Penso che questo, inevitabilmente, sarà il cinema del futuro, di un futuro molto prossimo. Se non è già il cinema del presente. Per cui, ripeto, Bertolucci aveva ragione».
Nel film lei fa dire al protagonista, a mo’ di condanna: “Gli happy end di Hollywood sembravano reali”. Sembra la denuncia di un inganno…
«Sono cresciuto negli Anni 40 e 50 e, come dicevo, si andava tantissimo al cinema. Lo schermo, il fumo, i popcorn e tantissime persone che guardavano con te il film e provavano le tue stesse emozioni. Si vedevano film che, per la maggior parte, erano prodotti commerciali che presentavano soluzioni molto positive ai problemi della vita: quasi tutti avevano un lieto fine. Generalmente quelli che si innamoravano rimanevano per sempre insieme, i colpevoli incontravano il giusto destino, gli eroi facevano le cose corrette, in guerra o altrove. E poi le persone vivevano in una certa maniera, si vestivano in un certo modo, l’arredamento delle case era rassicurante. Questo era l’immaginario con cui venivamo alimentati da ragazzi, quello con cui siamo cresciuti. Tutte le donne erano bellissime, tutti gli uomini eroici, tutti erano divertenti e intelligenti, tutti coraggiosi. Tutto finiva benissimo e questo è quello che pensavamo ci sarebbe successo nella vita. Ma non è andata così. Le donne rimanevano molto deluse degli uomini con i quali finivano con l’uscire perché quegli uomini non erano Clark Gable o Spencer Tracy, non erano James Cagney o Humphrey Bogart. E gli uomini, anche loro, erano molto delusi perché le donne non erano Katharine Hepburn o Rita Hayworth. Il risveglio dagli happy end è stato molto duro, per la mia generazione».
Rifkin’s Festival è intriso di amore per il cinema europeo. Ci sono sequenze ispirate a Fellini, Bergman, Buñuel. E una frase detta da Mort Rifkin: “Con l’Europa il cinema è diventato adulto”. È una dichiarazione di sfiducia verso il cinema americano?
«Durante la Seconda guerra mondiale vedevamo molti film che aiutavano a tenere alto il morale, ma alla fine della guerra abbiamo cominciato a scegliere i film del neorealismo italiano e della nouvelle vague francese. Persone della mia età, eravamo non più bambini ma già adolescenti, hanno cominciato a vedere questi film. Dicevamo: “Mio Dio, questi sono innovativi, ricchi di immaginazione! Qui esiste il confronto con la realtà e non sono storie finte, ma molto più vicine alla vita vera, almeno come la conoscevamo noi. Erano molto più interessanti da guardare, i personaggi più adulti e non sciocchi o affettati. Film molto profondi. Noi eravamo molto attratti da Ingmar Bergman o da Vittorio De Sica. Si è trattato di una vera rivoluzione, per la mia generazione di adolescenti. Mi creda, ogni volta che veniva proiettato un film europeo nel quartiere, noi correvamo a vederlo subito. Fellini ad esempio è stato importantissimo, uno dei grandi maestri che ha ispirato molti registi americani. Come hanno fatto Bergman e Truffaut e Godard e De Sica e Antonioni. Vedevamo i loro film, e quelli di Fellini in particolare, perché così ci formavamo ad un cinema che poteva essere arte e non solo un prodotto commerciale o di evasione. Quegli autori sono stati maestri, nel senso proprio del termine».
Un’altra battuta del film, sempre rivolta dal suo alter ego al giovane regista che pontifica sulla fame nel mondo, è una domanda, una semplice domanda: “Immagino che lei sia contrario alla fame nel mondo….”.
«Molto spesso vedo che nei festival del cinema ci sono molti registi che si prendono molto sul serio e rilasciano dichiarazioni altisonanti. Si guarda a loro come autorità in grado di fare importanti commenti di natura sociale quando in realtà non è così. Spesso sono solo pretenziosi, i loro film non sono granché, cercano di far sembrare il plot importante affrontando un argomento importante ma il prodotto non è molto buono. Magari parlano della guerra in Congo, di quella in Afghanistan o del conflitto arabo-israeliano ma i film non sono validi anche se gli argomenti che trattano sono seri. Gli spettatori tendono a prendere molto seriamente il film quando l’argomento è impegnato. Ci sono ormai pochissimi artisti, quelli veri. E non sono quelli che rilasciano interviste presuntuose. Sono quelli che in silenzio svolgono il loro lavoro, fanno dei bei film e non cercano di sfruttare la politica del momento o gli argomenti più eclatanti del giorno per far sembrare importanti le loro opere».
Lei ha parlato delle vicende di cronaca che l’hanno riguardata, le accuse di molestie, nel suo libro autobiografico A proposito di niente. Vuole dire qualcosa al pubblico italiano?
«All’inizio della mia carriera nel cinema, quando ho girato Prendi i soldi e scappa e Il dittatore dello Stato libero di Bananas e mi hanno detto che Vittorio De Sica aveva amato tantissimo questi film ed il pubblico italiano mi ha sostenuto ed ha cominciato ad appoggiarmi, ho avvertito un forte senso di gratitudine. In più di cinquant’anni di lavoro nel cinema il pubblico italiano mi è rimasto fedele, ha amato i miei film e a me piace farli per gli spettatori del suo Paese, mi piace girare in Italia. Cosa può dire un artista quando l’Italia, uno dei grandi fari della cultura del mondo, lo incoraggia per tutta la sua carriera? Farò del mio meglio per rendere il pubblico italiano orgoglioso di me per il resto della mia vita».
Tra le tante citazioni esplicite del cinema del passato ce n’è una che riguarda un capolavoro di Luis Buñuel, “L’angelo sterminatore”, che aveva già richiamato in “Midnight in Paris”. In quel film gli invitati ad una festa non riescono a uscire da una stanza. C’è un muro invisibile che glielo impedisce. Qual è, per lei, il nostro muro eterno e invisibile?
«Ci sono molte persone che non riescono ad uscire da sé stesse, Tennessee Williams lo ha detto nel modo migliore quando ha affermato che siamo tutti prigionieri della nostra pelle, e questa è la stanza dalla quale non riusciamo mai ad uscire. Possiamo cambiare la stanza esterna, possiamo cambiare Paese, casa, ma non possiamo uscire dalla nostra pelle. Siamo bloccati da chi siamo e dobbiamo sopportare il dolore delle esperienze della nostra vita; nessuno può morire per noi; moriamo sempre da soli e sempre per noi stessi e questo è per me dove siamo intrappolati. Nella nostra stessa pelle».
Un suo film e uno della storia del cinema da portare su un’isola deserta?
«Probabilmente sceglierei due film di un altro regista perché io non guardo mai i miei film. Per esempio, “Prendi i soldi e scappa” o “Il dittatore dello Stato libero di Bananas” che ho girato nel 1968, non li ho mai più rivisti. Sarei molto felice di portarmi “Ladri di biciclette” e “La grande illusione” o anche “Ladri di biciclette” e “Il settimo sigillo”, oppure “Ladri di biciclette” e “Rashomon”. Potrei indicare varianti per il secondo titolo, ma “Ladri di biciclette” lo sceglierei sempre, di sicuro. E se ne potessi portare uno solo, sarebbe il film di De Sica. Senza dubbio».
Forse ricorderà che quando venne in Campidoglio mio ospite io, a pranzo, le feci conoscere Oreste Lionello, che è stato tanta parte del suo successo italiano…
«L’ho scoperto solo tardi. Quando è cominciato tutto non sapevo come fosse la voce, non sapevo chi fosse il doppiatore italiano, non sapevo nulla. Ma dopo anni in cui vedevo quale positiva accoglienza ricevevano i miei film in Italia e quanto le persone sembravano divertirsi, ho cominciato a rendermi conto che la persona che mi prestava la voce qui mi aveva trasformato in un eroe. Non lo avevo mai incontrato, quella fu la prima volta. Non me ne ero reso conto prima: l’attore che mi doppiava stava facendo un lavoro migliore di quello che avrei potuto fare io. Quando l’ho incontrato gli sono stato molto grato. E sono contento di averglielo detto».
Mort Rifkin dice: “Probabilmente ho solo un mese di vita e sicuramente sarà febbraio”. Diciamo che lei il bicchiere lo vede mezzo vuoto, sempre.
«Come ho scritto nella mia autobiografia fin da ragazzino sono sempre stato pessimista, senza alcuna buona ragione per esserlo. Ho avuto dei bravi genitori, la mia famiglia è stata buona con me, ho avuto una bella infanzia ma, per qualche ragione, sono sempre stato pessimista. E non sono mai riuscito a sapere perché. Fino ad oggi».
Quanto è importante il jazz, che lei venera e suona, nel suo lavoro?
«Ho sempre voluto mettere la musica jazz nei miei film, questo è il motivo per cui in genere non ingaggio i compositori. Vado semplicemente a cercare nella mia collezione di dischi e scelgo la musica jazz giusta. Mi guida una sensazione, un feeling istintivo. Amo moltissimo la musica americana, il jazz, il pop, Gershwin, Sidney Bechet, George Lewis e altri. Sono persone che ho sempre amato. I miei film esprimono la mia gratitudine per loro e uso le loro musiche perché sento che sono l’accompagnamento perfetto per quello che voglio dire con le mie storie».
Le cito due date decisive della storia americana. La morte di John Kennedy e l’11 settembre del 2001.
«Quando è stato ucciso Kennedy ero a Los Angeles, recitavo nel cabaret. Ero un comico e mi trovavo nella mia camera d’albergo per scrivere una sceneggiatura. Accesi la televisione, sentii la notizia che era morto, guardai la televisione per cinque minuti e poi la spensi e tornai a scrivere la mia sceneggiatura. Allora ero molto ambizioso e molto impegnato nel mio lavoro… L’11 settembre invece ero in cucina con mia moglie e qualcuno mi ha detto quello che era successo. Ho cominciato a sentire anche io le notizie e ricordo di essere andato in ospedale per donare il sangue. Ma non lo hanno voluto prendere. Mi hanno guardato e non hanno voluto sentire ragioni. Mi hanno detto: “No, non lo accettiamo” e mi hanno dato da mangiare un sandwich».
Lei è tra i pochi registi che hanno costruito un loro mondo fantastico. Fellini lo faceva. Un suo film è riconoscibile tra mille. Com’è il mondo di Woody Allen?
«Non è un mondo reale. Da ragazzo andavo al cinema per evadere, trascorrevo tutto il mio tempo a guardare film per fuggire dal mondo reale. Poi, da adulto, ho fatto film e trascorrevo un anno intero a lavorare con i costumi, i set, gli attori. Sono sempre stato ossessionato da cose finte, storie finte. Ho trascorso la mia vita ad evitare la realtà e voglio continuare ad evitarla. Non mi piace, non mi è mai piaciuta ed il mio mondo è un mondo che non è reale. È un mondo migliore di quello vero. Non è così brutale e terribile».