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 2020  ottobre 30 Venerdì calendario

Le confessioni di Keith Jarrett

L’ultima volta che Keith Jarrett suonò in pubblico, il rapporto con il pianoforte era l’ultimo dei suoi pensieri. Era alla Carnegie Hall, nel 2017, qualche settimana dopo l’ingresso in carica del nuovo e controverso presidente americano. Jarrett, uno dei più osannati fra i pianisti viventi, un emozionante artista jazz che si è dedicato anche alla musica classica, esordì con un discorso indignato sulla situazione politica e ci tornò sopra durante tutto il concerto. Finì ringraziando il pubblico per averlo commosso fino alle lacrime. Sarebbe dovuto tornare alla Carnegie il marzo dell’anno seguente per un’altra delle sue esibizioni solistiche che tanto hanno contribuito a creare la sua leggenda, come quella del Budapest Concert  album in uscita oggi. Ma la serata alla Carnegie fu annullata, così come il resto del tour. All’epoca, la sua storica casa discografica, l’Ecm, parlò di problemi di salute non meglio specificati. Nei due anni successivi non c’è stato nessun aggiornamento ufficiale.
Questo mese, però, il settantacinquenne Jarrett ha rotto il silenzio, comunicando senza giri di parole che cosa gli era successo: un ictus alla fine di febbraio del 2018 seguito da un altro tre mesi dopo, a maggio. È molto difficile che possa mai tornare a suonare in pubblico. «Ero paralizzato», racconta al New York Times al telefono da casa sua, nella parte nordoccidentale del New Jersey. «Il mio lato sinistro è ancora parzialmente paralizzato. Riesco più o meno a camminare con un bastone, ma anche per arrivare a questo ho impiegato parecchio tempo, un anno o più. E non riesco a spostarmi molto per casa». Jarrett non si era reso conto subito della gravità del primo ictus. «È arrivato di soppiatto». Ma quando erano cominciati a venir fuori nuovi sintomi lo avevano portato in ospedale, dove poco a poco si era ripreso, abbastanza da essere dimesso. Il secondo ictus lo colpì a casa, e dovette ricoverarsi. Durante i mesi trascorsi nella clinica, dal luglio del 2018 allo scorso maggio, ha fatto un uso sporadico della sua stanza del pianoforte, suonando qualche contrappunto con la mano destra. «Facevo finta di essere un Bach monco», dice. «Ma stavo solo giocando». Quando di recente, nello studio di registrazione che ha in casa, ha cercato di suonare qualche melodia bepop che conosceva bene, ha scoperto che non se le ricordava più.
La voce di Jarrett ora è più morbida e fievole, ma durante le due ore circa della nostra conversazione si è dimostrato lucido e intellegibile, al di là di qualche occasionale vuoto di memoria. Accompagnava spesso un’affermazione pesante o incerta con una risata che sembrava una flebile esalazione ritmica: Ah-ha-ha-ha.
Cresciuto nella fede del cristianesimo scientista, che rifugge dalle cure mediche, Jarrett è tornato a quel mondo spirituale, ma non del tutto. «Non indulgo spesso alla retorica del “perché a me”», dice. «Essendo un cristiano scientista, dovrei dire “Vade retro, Satana”. E un po’ l’ho fatto, quando ero nella clinica. Non so se con successo, però, visto che questa è la situazione». «Non so come sarà il mio futuro», aggiunge. «In questo momento non mi sento un pianista. È tutto quello che posso dire al riguardo». Dopo una pausa, torna sull’argomento. «Ma quando sento qualcuno che suona il piano con due mani provo una frustrazione fisica. Anche solo ascoltare Schubert, o qualcosa suonato in modo sommesso, basta a farmi scattare questa cosa, perché so che non sarei in grado di farlo. E i medici non prevedono che potrò mai recuperare quella capacità, al massimo potrò tornare a tenere in mano una tazza con la mano sinistra. Insomma, non è una cosa tipo “Non sparate sul pianista”, mi hanno già sparato. Ah-ha-ha-ha».
Se la prospettiva di Keith Jarrett che non si considera più un pianista lascia sconcertati, è perché un pianista Keith lo è stato praticamente per tutta la vita. Era un prodigio fin da bambino, ad Allentown, in Pennsylvania, dov’è cresciuto. Secondo quello che si racconta in famiglia, aveva 3 anni quando una zia gli indicò un ruscello nelle vicinanze e gli disse di trasformare il suo gorgoglio in musica, la sua prima improvvisazione al pianoforte. Il resto del mondo si accorse delle sue capacità alla fine degli anni 60, quando faceva parte di un gruppo molto in linea con lo spirito del tempo, guidato da Charles Lloyd, flautista e sassofonista. Il brillante batterista di quel quartetto, Jack DeJohnette, avrebbe poi aiutato Miles Davis a sconfinare nel rock e nel funk. Jarrett fece altrettanto ed entrò a sua volta nella band di Davis, che all’epoca era una specie di dream team: nelle registrazioni dal vivo, i suoi interludi al pianoforte elettrico sono magia pura.
Ben presto Jarrett cominciò a operare la stessa magia nei suoi concerti personali, dove i passaggi improvvisati diventavano l’evento principale. Aveva iniziato da pochi anni ad adottare questo approccio quando eseguì, nel 1975, quello che sarebbe diventato The Köln Concert, un evento epocale di ipnotica profondità, che resta ancora oggi uno degli album di pianoforte solista più venduti di tutti i tempi. Il concerto di Colonia è stato incensato anche come una dimostrazione pratica di trionfo sulle avversità, per il dolore fisico e lo sfinimento che provava Jarrett durante l’esecuzione e la sua frustrazione per l’inadeguatezza dello strumento.
Questa capacità di sormontare ostacoli insuperabili è un tratto persistente del mito di Jarrett. A tratti, nel corso degli anni, si è avuta perfino l’impressione che fosse lui stesso a crearsi impedimenti da superare: è famoso per trasformare i suoi concerti in imprese di intensità erculea e interromperli per ammonire il pubblico a non scattare foto o per rimproverare qualche spettatore che tossisce troppo. Un servizio su di lui del New York Times Magazine, nel 1997, aveva un titolo ironico: «Il martire del jazz». L’anno seguente, Jarrett annunciò che era affetto dallo sfibrante e misterioso malanno noto come sindrome da fatica cronica. (…) 
Considerando che tutti gli album di Jarrett, tranne un numero ristretto, sono registrazioni di esibizioni dal vivo, la sua reputazione di scontrosità forse andrebbe interpretata come il lato turbolento di una relazione di codipendenza. Ha sintetizzato al meglio la questione durante un concerto solista alla Carnegie Hall nel 2015, quando annunciò: «La cosa importante di cui nessuno sembra rendersi conto è questa: non riuscirei a fare quello che faccio senza di voi».
Ora che è costretto a rinegoziare il suo legame con il pianoforte, Jarrett si trova di fronte alla prospettiva verosimile della fine anche di quell’altro legame, con il pubblico. «Ora come ora, non riesco nemmeno a parlare di questa cosa», dice quando viene fuori la questione, e poi fa quella sua risata distorta. «È così che mi sento». E se la fantastica riuscita del concerto di Budapest lo inorgoglisce, si vede chiaramente che potrebbe interpretarla anche come uno sberleffo cosmico. «Riesco a suonare solo con la mano destra, e non mi convince più», dice Jarrett. «Faccio perfino dei sogni in cui ho gli stessi problemi che nella realtà: mi ritrovo che cerco di suonare, ma è esattamente come nella vita reale».
©The New York Times
(Traduzione di Fabio Galimberti)