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 2020  ottobre 30 Venerdì calendario

Intervista al premio Pulitzer Anne Boyer

«Ero viva: ma ne dubitavo. Alla fine del primo ciclo di chemio mi sembrava di essere scivolata in una sorta di anticamera dell’eternità simile alla realtà: ma non reale. Avevo perso il mio aspetto, la capacità di pensare, la funzionalità di certe parti del corpo: la certezza della mia stessa esistenza, appunto. Ero in un corridoio fra la vita e la morte, dove tutto si confondeva. Una condizione, ho scoperto, comune a molti malati. Ho cominciato a scrivere per ritrovarmi. Cercando di realizzare il libro di cui avrei avuto bisogno quando mi hanno diagnosticato il tumore al seno triplo negativo: la forma più aggressiva». Al telefono dalla sua casa di Kansas City la voce della poetessa e saggista Anne Boyer, 47 anni appena, è cristallina e sottile. Ogni risposta è accompagnata dalla risata leggera e nervosa di chi è molto timido: ma sa di doversi esporre al mondo. Come d’altronde ha fatto col suo Non morire. Il libro sulla malattia diagnosticatole a 40 anni, nel maggio scorso, le ha fatto vincere il Pulitzer. Un racconto che non è mai sentimentale o patetico, ma semmai un saggio letterario, artistico, scientifico, politico: intimo. Molto informato e mai banale.
Tutto è cambiato quando le hanno diagnosticato il tumore...
«Vivevo del mio stipendio d’insegnante al Kansas City Art Institute, mi prendevo cura di mia figlia. All’improvviso la malattia mi ha messo in balia degli altri. I medici che decidevano come curarmi, gli affetti costretti a occuparsi di me. Sono entrata in un mondo parallelo e dalle regole ferree, dove non ero più la persona di prima. Un labirinto esistenziale dove ero guardata attraverso il filtro della mia fragilità, del mio corpo malato. Incastrata in una rete di dati statistici e interessi economici che prescindevano dalla guarigione».
Come ha reagito?
«Studiare è sempre stato il mio modo di reagire ai problemi. Come se sapere il più possibile potesse aiutarmi non dico a superare, ma almeno a gestire la situazione. Ho avuto una reazione ossessiva: volevo leggere tutto quello che era stato scritto sulla malattia. Cercando di capire se chi aveva sofferto del mio stesso male poteva insegnarmi ad affrontare la mia nuova dimensione. Autrici come Susan Sontag, Kathy Acker, Audre Lorde hanno scritto libri magnifici sulla loro esperienza più difficile. I loro libri mi hanno spinta a misurarmi, anche io, col dolore, la confusione, la difficoltà. Cercando un senso da restituire al mondo».
Ha trovato le risposte che cercava?
«Solo frammenti. Niente mi spiegava la mia nuova posizione nella società. Una condizione in cui la tua funzionalità diminuisce, ma ti viene comunque chiesto di continuare a produrre, anche se il corpo non ce la fa. Per capire la nuova realtà in cui ero finita ho dovuto affrontare una ricerca complessa, ricominciare di continuo».
Ha scritto un libro personale: ma anche molto politico...
«Il sistema sanitario americano è scandaloso. Condizione economica, razza, genere, determinano ancora in buona parte le tue possibilità di sopravvivere. Ho vissuto brevemente in Europa e non potevo credere al lusso di andare facilmente dal medico e non avere lo stress di pensare che il responso e la cura dipendono prima di tutto da interessi economici. Certo, qui la pandemia sta facendo aprire gli occhi a molti. Ma non so se saremo in grado di cambiare le cose».
Già, il coronavirus. Come lo sta affrontando?
«Quando a gennaio cominciai a leggere cosa accadeva in Cina, ebbi subito la certezza che sarebbe arrivata fin qui e, conoscendo la complessità del sistema sanitario americano, che sarebbe stato un disastro. Ho passato mesi a prepararmi al peggio e ora, come ogni persona a rischio, sto più attenta e isolata degli altri. L’approccio eugenico di Trump non mi ha sorpreso: ha lasciato morire i più deboli. In linea con la sua ideologia».
Nel libro affronta un aspetto spesso ignorato, quando si parla di cancro: il modo in cui le componenti chimiche di certe cure impattano l’ambiente...
«Ho raccolto i pochi studi che ci sono ma bisognerebbe fare di più. Le componenti chimiche di alcuni medicinali, sul lungo termine hanno un grave impatto ambientale. Il paradosso del cancro è che certi composti lo causano: ma in altre dosi lo curano. Farmaci come l’adriamicina e il ciclofosfamide sono così tossici da causare, sulle lunghe distanze e a patto che ci si arrivi, nuovi tumori. Ovvio che impattano l’ambiente».
Descrive anche il suo fastidio nei confronti di una certa cultura del cancro. Se la prende col fiocco rosa, ad esempio...
«Negli anni ’90 l’idea fu sottratta a Charlotte Hayey — che dopo aver sconfitto il cancro al seno vendeva fiocchi color pesca nei supermercati per destinare denaro alla ricerca — semplicemente cambiando colore al nastro. Io ebbi la sfortuna di iniziare la chemio proprio a ottobre, il mese dei fiocchi rosa, appunto. E mi accorsi che la realtà della mia malattia era cancellata da una cultura sdolcinata e sentimentale costruita a tavolino per meri interessi economici. Il tumore al seno trasformato in un’ostentazione buonista di gioiellini, orsetti e decorazioni per l’albero di Natale. Dove tu, malata, devi aderire all’immagine della maratoneta gentile».
O della “guerriera”: come spesso vengono definiti i malati di cancro.
«Un’immagine odiosa e infelice. Il tumore è dentro di te, è te. Personalmente, l’ho rispettato: una forza così potente... Quello che ho detestato, quello verso cui bisogna davvero combattere, sono le circostanze per cui ci ammaliamo. Frutto di uno sconsiderato capitalismo industriale che avvelena tutti».
Il suo percorso l’ha portata a vincere il Pulitzer. E ora?
«Quella mattina ho cominciato a ricevere mail di congratulazioni da persone famose. Ho pensato a un errore ed ero già in imbarazzo pensando a come dirgli che si erano sbagliati. Poi mi ha chiamato la mia agente: era vero. Sono timida e la notorietà mi stressa. Ma sono felice che il libro sia apprezzato. Spero sia utile a chiunque voglia capire di più. E che qualcuno prosegua il mio viaggio, le mie ricerche, lì dove io mi sono fermata».