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 2020  ottobre 30 Venerdì calendario

Benvenuti ricordo l’incontro con Monzón del 1970

«Saliva sul ring per prendere a pugni la vita, con lui non era stata certo generosa. Credo che la sua brutalità fosse alimentata soprattutto da quella rabbia che, incamerata da bambino, non lo aveva mai abbandonato», dice Nino Benvenuti. Un indio venuto dal nulla, ruba un sentimento che neppure conosce. Alto, magro, braccia lunghe e muscoli tirati, piazza due ganci, poi allunga il sinistro per prendere la mira e tira giù la mannaia. Il destro che chiude il conto è terribile.
Carlos Monzón non sente il bisogno di vedere gli effetti provocati dal colpo. Gli sembra una cosa inutile. Sa già che la storia finisce lì. Nino è ko. Il suo giustiziere non si ferma neppure a guardare. Scagliato il destro, si gira e va via. Il lavoro è finito. Piange la gente a bordo ring, piangono gli innamorati di Benvenuti lassù nel terzo anello del Palazzo dello Sport. C’è un affetto sconfinato nei confronti di Nino. Quell’indio l’ha appena rubato. Monzón arriva in Italia scortato da un piccolo clan. Incollata davanti alla tv, una signora ferrarese assiste allo sbarco nella Capitale. Augusta Becchetti telefona subito al marito che è in ritiro a Imola, in preparazione per l’Europeo contro Tom Bogs.
«Cosa c’è?» le chiede Carlos Duran. «Ho visto in tv quell’argentino, quello che deve fare con Nino. Ha una faccia che non mi piace. Ha la faccia di uno che si porta a casa il mondiale». Monzon arriva senza che si sappia molto di lui e si prende tutto. Manda ko il nostro eroe. Solo in quel momento, per una frazione di secondo, sulle sue labbra appare qualcosa di assai simile a un sorriso. È il 7 novembre del 1970. Carlos Monzon, Carlitos per gli amici, si allena per due settimane a Roma, nella palestra del Flaminio. Il regno di capo Repetto. Sul ring si muove come una pantera. A gestire la parte atletica è il professore Patricio Russo. Origini campane, tarchiato, stempiato e con una testa tonda che sembra una biglia. Amilcar Brusa è la guida tecnica. «Anche in allenamento poteva farti molto male senza rendersene conto. Non dosava la sua forza disumana che sfociava in una violenza incontrollata», citiamo sempre Nino Benvenuti.
Una seduta di sparring lento, un tango figurato con Josè Menno. Poi, roba più tosta con Mario Romersi. Romano, nato in Trastevere quando la guerra è appena finita e l’Italia fatica a rimettersi in piedi. Un duro che sa farsi rispettare. La stampa italiana ha occhi solo per Benvenuti. «È possibile che non capiate mai niente?», l’organizzatore Rodolfo Sabbatini esagera. «Carlos, fatti vedere», così dicendo prende il mento dell’argentino e lo tira su. «Guardatelo. Ha disputato 79 match e non ha un segno in faccia. Non sembra la faccia di un pugile. Non vi dice niente questo?». Monzón si sottopone al rito con indolenza. Non gli interessa farsi conoscere, non gliene frega niente dei giornalisti. Lui è lì per prendersi il titolo. Il giorno dopo Sabbatini confessa agli amici: «Ho letto titoli di giornali che meritano un quadruccio. Me li voglio attaccare al muro e dopo il match invitare chi li ha fatti. Non so come finirà, ma Monzón avrebbe meritato maggiore rispetto». Una delle poche eccezioni è Sergio Roscani che su Boxe Ring scrive: «Carlos fa paura soltanto a vederlo in borghese. In pa-lestra, la paura diventa panico. Il destro è un oggetto misterioso non perché sia nascosto, ma perché non si vede, tanto è veloce. È un destro maledetto». Abile profeta, Roscani.
«L’arbitro, mentre Benvenuti si rialza, decreta il fuori combattimento. Poi Nino, veramente in maniera pietosa, non sapremmo come altrimenti definirla, se ne va barcollando per il ring, finisce sulle corde. È una conclusione francamente insospettata», dice Claudio Ferretti alla radio. Piangono al Palasport, piangono gli emigranti italiani a tredicimila chilometri di distanza. A Buenos Aires, a Mendoza, a Mar del Plata, a Paranà, fino a raggiungere l’estremo Rio Gallegos. «Viviamo tutti insieme il dramma di Nino Benvenuti fulminato da un destro nel suo angolo nel corso della dodicesima ripresa», commenta in tv Paolo Rosi. Nino non è solo un pugile, è l’immagine del successo. Bello, intelligente, spigliato nella conversazione, fenomenale sul ring, vincente da dilettante e da professionista. Chi non vorrebbe essere come lui? Adesso però, lui è l’immagine della sconfitta. Lo scrivente ricorda con onore e commozione la visita di Julieta, la nipote, che due anni fa volò a Roma dall’Argentina per conoscermi. Fu un incontro toccante. «Mi raccontò che il nonno parlava spesso di me, con rispetto e grande considerazione», ricorda Nino Benvenuti. Finisce, come doveva finire.
Un pugile in ascesa, affamato come solo chi ha sofferto per una vita intera può esserlo. Forte nel fisico, nei pugni, nella testa. Senza paura di niente e di nessuno. Un professionista della violenza. «Da quel rancore scaturiva un carattere del tutto incontrollato», sottolinea Benvenuti.
Contro ha un uomo logoro per una lunga e faticosa carriera dilettantistica, un professionismo fatto di tanti momenti di gloria ma anche di altrettanta tensione. Pensate a Griffith, Mazzinghi, Ki Soo Kim. Finisce, come doveva finire. La gamba destra piegata all’indietro, la sinistra protesa in avanti. La faccia volta verso le corde, Nino si protegge pietosamente il volto con il braccio. Poggia la testa sul tappeto, resta così per qualche secondo, in un gesto che sembra di preghiera. Si rialza a fatica, barcolla, finisce ancora contro le corde. Lo prendono amorevolmente sotto le braccia e lo fanno sedere. Finisce, come doveva finire. Il nuovo campione del mondo dei pesi medi è un pugile con la faccia da cattivo e gli occhi che sembrano fessure. Fa paura solo a guardarlo, figuratevi a dividere con lui lo stesso ring.
«Nel settimo round ho capito che sarei diventato campione, l’uno-due del dodicesimo ha chiuso il conto. Non si sarebbe rialzato anche se avessero contato fino a 120!» dice Carlitos al microfono della Tv argentina. Come Cassius Clay è stato il più grande, l’insuperabile, in assoluto, così Carlitos è stato il più forte. Era uno con cui non avevi speranza. Con lui ho perso, sì, ma oserei dire con onore. «Era un campione imbattibile», dice convinto Benvenuti.
Il Palasport romano spegne le luci. Sono passati cinquant’anni, ci restano solo i ricordi. Li abbiamo messi assieme accompagnati dai commenti di Benvenuti raccolti in questi giorni. Carlos Monzón non c’è più, come gli altri uomini del suo clan. Amilcar Brusa, Tito Lectoure, Josè Menno. «E Susana Gimenez, la “donna dello scandalo”, vive in Uruguay, a 76 anni continua a essere una stella della televisione argentina – ricorda Benvenuti –. Ricordo che quando lo andai a trovare in carcere, dopo la tragedia che distrusse la sua vita, oltre ovviamente a quella della vittima e della sua famiglia, gli chiesi: “Ma che hai combinato?” Lui, che sembrava ignorare quanto successo rispose scuotendo le spalle e con lo sguardo perso nel vuoto: “Non lo so Nino”. «Ciao Carlitos, chissà dove sarai ora. Sei stato il mio eroe del ring, quello che mi ha fatto sentire sconfitto come nessun altro è riuscito a fare», conclude Nino Benvenuti che oggi abita a Roma con la seconda moglie Nadia Bertorello. Di Monzón (morto a 52 anni nel 1995) parla sempre con rispetto. Ricorda quella notte, anche se preferirebbe riviverne un’altra. Madison Square Garden, New York, 17 aprile 1967. E come diceva Walt Disney: «Se puoi sognarlo, puoi farlo».